Luca ci fa sapere che Gesù “andava attorno di città in città e di villaggio in villaggio, predicando ed evangelizzando il regno di Dio” (8,1). Di fronte a una grande folla accorsa a lui da ogni città per udire, Gesù si rivolge a ciascuno dei presenti, richiamandoli alla responsabilità di un ascolto vero, attento, autentico: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (8,8). Nella prima parte del testo di Luca, Gesù ricorre a un’immagine del mondo agricolo, oggi poco conosciuta dai più: quella della semina. Per chi conosce il mondo dei contadini, con i suoi molti punti di contatto con quello della Bibbia, questa immagine conserva tutta la sua forza. Seminare è dare la vita, è un atto di speranza, un atto di fiducia, che accetta la sfida del tempo dell’attesa che intercorre tra la semina e la raccolta. Si sente subito una ridondanza, propria di Luca: “Uscì il seminatore a seminare il suo seme” (8,2). Il seme è la Parola di Dio (8,11): nessun’altra parola può trasformare la vita, toccare i cuori degli uomini, operare un cambiamento di conversione. La Parola ci viene donata con generosità, come la pioggia e la neve che scendono dal cielo per donare il seme a chi semina e il pane a chi mangia (Isaia 55,10). L’ascolto della Parola continuamente ci interpella e ci provoca, se siamo capaci di cogliere i suoi riflessi in ogni istante della nostra vita, in ogni incontro e contesto delle nostre giornate.
Le modalità con cui il seme cade sul terreno descrivono diversi modi di accogliere la Parola. Noi facciamo esperienza di queste modalità spesso senza rendercene conto. Il seme caduto a terra viene calpestato e portato via dal diavolo. Solo Luca, tra i sinottici, ci dice che il seme viene calpestato: è la stessa espressione che ritroviamo in un altro detto di Gesù, quello del sale che non ha più sapore. È il nostro cuore indurito, a volte reso impermeabile dagli eventi della vita, che respinge il seme che viene seminato. Pensiamo forse di proteggerci dal dolore e dalla sofferenza, ma non ci rendiamo conto che stiamo impedendo alla vita stessa di trasformarci, di rendere fecondo il nostro cuore. Luca esplicita con poche parole l’azione del diavolo che porta via la Parola: perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Il diavolo non vuole la nostra salvezza. Il suo è un principio di morte che vuole separarci da Dio, per questo ci isola nel nostro indurimento. Il Signore conosce tutto questo. La citazione di Isaia 6,9-10, che troviamo tra la parabola e la sua spiegazione, lo prevede, quando allude all’incapacità di accogliere la Parola.
La parabola di Gesù parla poi di terreni rocciosi e altri pieni di spine: le dure prove della vita, ma anche i piaceri e le distrazioni del mondo rendono il nostro cuore un terreno inadatto a far crescere il seme che è stato seminato in noi. Non possiamo comprendere tutto e subito (in poco tempo) della Bibbia, ma dobbiamo accogliere il seme e lasciare che metta radici dentro di noi, che cresca durante il lungo inverno, per poi vedere il frutto maturo. Abbiamo bisogno di “un cuore capace di ascolto” (1Re 3,9), che sappia custodire il seme della Parola, perché non avvenga che al sorgere della prova, venga meno il credere: “Credono per un tempo, poi si tirano indietro” (8,13). Un cuore che accoglie e custodisce la Parola è da essa custodito e reso saldo, nell’attesa del tempo che passa alla prova la perseveranza. Lasciare che la Parola ci raggiunga significa lasciarci ricreare da essa ogni giorno. La parabola non ci parla di qualità innate che alcuni posseggono e altri no, non ci indica una via segreta da seguire. La parabola ci invita a interrogarci su come noi ascoltiamo (8,18), e a dilatare l’ascolto nel tempo, per sapere attendere con fiducia e speranza che il frutto giunga a suo tempo. Il terreno buono riceve la Parola e la fa fruttare.