Bibbiaoggi
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Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Deuteronomio 9 riporta un altro importante discorso di Mosè al popolo d’Israele sul confine della terra promessa, al di là del fiume Giordano, poco prima di entrare nel paese di Canaan. Prima uno sguardo al contesto, per cercare di cogliere la visione e la prospettiva in cui si muove il discorso, per poi tornare allo studio del nostro testo, che si limita a una riflessione su quanto Mosè dice al popolo nei versetti 4-6: Non dire in cuor tuo: È per la mia giustizia che il Signore mi ha fatto entrare in possesso di questo paese. No, tu non entri per la tua giustizia, ma per la malvagità delle nazioni e per la promessa fatta da Dio ai tuoi padri. Il capitolo (il discorso di Mosè inizia in 9,1 e si estende fino a 10,11) comincia con la formula tipica dei discorsi del Deuteronomio: “Ascolta, Israele”. Si può articolare in due parti. La prima: la conquista della terra promessa non dipende dalla giustizia del popolo d’Israele (9,1-6). I potenti anakim (anachiti), popolo grande e alto di statura, e le loro città grandi e fortificate, saranno dati da Dio nelle mani d’Israele, che li vincerà. La seconda: il cammino d’Israele nel deserto è una storia di ribellione e disobbedienza a Dio (9,7-10,11). Motivo per cui l’intero discorso, dopo i versetti iniziali, può essere considerato un sermone sulla caparbietà d’Israele durante l’esodo e il cammino nel deserto. Mosè invita il popolo d’Israele a ricordare (vocabolo tipico della parenesi del Deuteronomio) e a non dimenticare come ha provocato a ira il Signore nel deserto, dal giorno che uscì dall’Egitto fino al confine della terra promessa (9,7). Tra i peccati e le disubbidienze d’Israele nei confronti di Dio sono ricordati l’episodio del vitello d’oro e le ribellioni a Tabera, a Massa, a Chibrot-Attaava e a Cades-Barnea. Ma accanto alle infedeltà d’Israele emerge la figura di Mosè come intercessore del popolo presso Dio. Nelle fervide preghiere d’intercessione, Mosè chiede a Dio di risparmiare il popolo che ha eletto, che ha liberato e redento dall’Egitto. Oltre all’elezione d’Israele e alla natura della relazione che Dio ha con il suo popolo, Mosè fa appello alla reputazione del Signore tra le nazioni e al giuramento e promessa fatta ai patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. La preghiera appassionata di Mosè fa muovere spesso Dio a compassione, che sospende il suo giudizio in favore della misericordia.


La frase “oggi tu stai per entrare” non indica un giorno specifico del calendario, come se Israele dovesse in quel giorno entrare nel paese, ma indica la realizzazione del tempo della promessa di Dio: è giunto il tempo in cui Giosuè guiderà il popolo alla conquista del paese, come promesso da Dio. Mosè si era già rivolto a Israele con queste stesse parole in 2,18. L’“oggi” mette in relazione l’evento della conquista e la generazione presente, ma dice anche dell’altro. A proposito del patto, Mosè aveva detto: “È con noi che siamo qui oggi tutti quanti in vita” (5,1) che Dio ha stabilito il patto dell’Oreb. In realtà dal Sinai fino a questo discorso di Mosè sono passati quasi quarant’anni. L’“oggi” allora diventa in tali contesti un “giorno senza calendario” per dire che ogni promessa di Dio è per chi ascolta e ubbidisce al Dio che parla. È il ragionamento che fa l’autore dell’epistola agli Ebrei nei capitoli 3 e 4. L’“oggi” è l’oggi di Dio che ci invita all’ascolto e all’ubbidienza della Parola per ottenere le benedizioni promesse e la giustizia in Gesù Cristo.


La logica sbagliata e la tentazione nella quale Israele potrebbe cadere, una volta entrato nella terra promessa, dopo aver fatto esperienza di grandi vittorie durante la conquista, è quella di cadere in un orgoglio spirituale e credere di aver meritato il possesso del paese a motivo della propria giustizia. Ecco come possiamo rendere il dialogo tra Israele e Mosè (o Dio). Israele: “È per la mia giustizia e per la malvagità delle nazioni che io entro in possesso della terra promessa”. Mosè: “No, non è per la tua giustizia che tu hai il possesso del paese di Canaan, ma è per la malvagità delle nazioni e per le promesse di Dio ai patriarchi che tu possiedi la terra promessa”. Israele è un popolo ostinato, di collo duro, e non può contrapporre la sua giustizia (zedaqah) che non ha, come la storia dell’esodo dimostra, alla malvagità (ris’ah) delle nazioni, che pure è innegabile. Il possesso della terra trova motivo nel giudizio di Dio contro le nazioni, nell’elezione e promesse ai patriarchi. Neppure Israele, il vincitore dei popoli cananei, può reclamare meriti propri o speciali di fronte a Dio. Paolo, nella lettera ai Romani, parlando della giustizia di Dio e della giustificazione, dirà: “Tutti sono sotto il peccato, ebrei e gentili” (3,9). Israele non può allora accampare meriti di una giustizia che non ha sul paese, può invece ricevere la terra promessa come dono della grazia di Dio.

Paolo Mirabelli

26 marzo 2018

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