La parabola. Il servo spietato (Matteo 18,23-35). (Salvoni dopo il titolo fa sempre seguire il testo secondo la versione del Nuovo Testamento da lui tradotta insieme a Italo Minestroni e pubblicata dalla Lanterna). L’esempio (il paragone che la parabole fornisce tra l’agire del re e il regno di Dio), riferito solo da Matteo, indica, contro l’uso mattaico (attestato fin qui), anche l’occasione in cui esso fu pronunciato (18,21-23). La sua introduzione nel contesto presente indica il significato che Matteo dava alla parabola di Gesù. Dopo avere detto che chi non ascolta la chiesa va ricercato come si cerca un pagano per convertirlo, l’evangelista riferisce la domanda di Pietro a Gesù: “Perdonerò chi mi offende sette volte?” (18,21). Egli credeva di essere assai generoso perché i rabbini suggerivano di perdonare per tre volte: “Se uno pecca, gli viene perdonato; se pecca una seconda volta, gli viene perdonato; se una terza volta, gli viene ancora perdonato; ma alla quarta volta non gli si perdona più” (cfr. Talmud, Joma 87). L’impersonale “non gli si perdona più” si riferisce, nel linguaggio biblico e dei commentatori ebraici, al perdono di Dio che, per scrupolo di coscienza, non si vuole nominare. Se Dio non perdona più dopo la terza volta, nemmeno l’uomo deve perdonare oltre tale misura (cfr. Amos 1,3; 2,1). Pietro quindi credeva di aver fatto uno sforzo enorme nel suo perdono, arrivando fino a sette volte. Il “sette”, simbolo di perfezione, gli sembrava ben adatto per indicare la misura del perdono; ma Gesù non accetta tale norma e la moltiplica infinitamente, insegnando che si deve perdonare “settanta volte sette” (7x10x7, che fa 490). Con tale espressione Gesù è in contrasto con l’insegnamento rabbinico, parlando di perdono illimitato. Contro l’antica legge del taglione, “dente per dente, occhio per occhio”, Gesù insegna che la misura del perdono è il perdono senza misura. Alla vendetta selvaggia di Lamech (Genesi 4,24), Gesù contrappone il perdono smisurato, che per di più deve venire dal proprio cuore ed essere un perdono sincero, non costituito da sole parole (18,35). Gesù, che ama gli esempi concreti a sostegno della dottrina, vi aggiunge la sorprendente e originale parabola del servo spietato (18,23-34), che non ha alcun parallelo nella letteratura rabbinica. Essa si suddivide in tre scene drammatiche: nella prima appaiono il padrone e il servo; nella seconda il servo e i suoi colleghi; nella terza di nuovo il padrone con il suo subalterno (La prima scena è quella della compassione di Dio; la seconda quella dell’agire del servo incapace di perdonare; la terza è la scena del giudizio, nella quale il servo riceve lo stesso trattamento da lui usato nei confronti del suo conservo; chi nella seconda scena non ha saputo vivere secondo il perdono ricevuto da Dio della prima scena, sarà costretto a vivere la terza scena, quella del giudizio. I tre personaggi sono presentati in ordine calante: il re, il debitore maggiore, il debitore minore). Per sé l’introduzione della parabola, “il regno dei cieli è simile a un re”, anche se letteralmente traduce bene l’originale, non ne riproduce bene il senso: non è il re che è simile, ma è il suo comportamento che si presenta affine alla realtà della “signoria di Dio” (regno di Dio).
Padrone (il re) e servo. Il termine “schiavo” nei racconti biblici non indica sempre dei veri schiavi, ma può designare anche i ministri di un re, gli amministratori di qualche provincia. Qui doveva essere il tesoriere del regno, incaricato delle finanze, poiché aveva con il re un debito astronomico di oltre dieci miliardi di lire in moneta corrente (quando Salvoni scrisse questi appunti esistevano ancora le lire, oggi il debito andrebbe calcolato in euro, tenendo conto che 1 euro corrisponde a circa 1930 lire). Sono detti schiavi i ministri del re in 1Samuele 8,14; è così chiamato Naaman, il generale in capo dell’esercito siro guarito dalla lebbra (2 Re 5,6); sono i servi di un uomo partito per un viaggio, dal quale ricevono somme ingenti da trafficare (Matteo 25,14-30). Il suo debito assommava a 10.000 talenti (secondo Giuseppe Flavio, storico ebreo contemporaneo degli apostoli, un talento equivaleva a 10.000 denari, che corrispondevano a 10.000 giornate di lavoro). Il talento, l’unità monetaria maggiore dell’Asia anteriore (mesopotamica), equivaleva a 60 mine, a 6000 dramme attiche, a 6000 denari, ossia a 6000 giornate di lavoro. La cifra di 10.000 sembra essere stata la cifra massima per i conti degli ebrei. Paolo, ad esempio, scrisse di preferire nell’assemblea pronunciare “cinque parole comprensibili a diecimila in lingue ignote” (1 Corinzi 14,19). È anche possibile che tale cifra sia stata esagerata ad arte, secondo il metodo orientale, prediletto da Matteo, di ingrandire ogni cosa per meglio impressionare l’uditore. Il servo, non potendo in alcun modo pagare il debito, viene condannato, secondo l’uso del tempo (cfr. Daniele 6,24; Ester16,13), a essere venduto con moglie e figli (i figli sono l’ultima cosa al mondo che un uomo venderebbe, la parabola vuole così mostrare che quel servitore era nell’impossibilità di pagare il suo ingente debito). Sicuro di non poter sfuggire la prigione assieme a tutti i suoi, lo schiavo fa allora appello alla magnanimità del sovrano: “Sii longanime (ossia paziente) con me e ti pagherò tutto”. Cosa impossibile con un debito simile: dove trovarne i mezzi? Si pensi che le rendite annuali del re Erode il grande, tratte da tutta la Palestina, assommavano a 900 talenti. Dinanzi a tale richiesta il re si sente commuovere tutto e condona del tutto l’ingente debito. La commozione è espressa con il verbo splanchnizomai (avere compassione, impietosirsi), che nell’Antico Testamento qualifica la tenerezza misericordiosa di Dio e nel Nuovo quella di Cristo davanti alle miserie umane. Di fronte ad Efraim minacciato, “le viscere (di Dio) si commuovono per lui”, Dio prova “per lui una profonda tenerezza” (Geremia 31,20). Il profeta Isaia invoca a Dio “il fremito della sua tenerezza”, letteralmente “il fremito delle sue viscere”, verso il popolo esiliato (Isaia 63,15). Gesù prova compassione dinanzi alle infermità e dinanzi alla folla affamata prima delle moltiplicazioni dei pani (cfr. Matteo 9,36; 14,14; 15,32). Quindi il re ebbe una vera compassione interiore verso il proprio servo, e, cosa inaudita, gli condonò l’intero debito.
Il servo e i suoi colleghi (conservi, syndoulon). Questo losco individuo, che con tanta sfrontatezza aveva profuso il denaro del re da contrarre un debito così colossale e dopo essere stato trattato con un’indulgenza inimmaginabile, s’incontra con un debitore che gli doveva solo 100 denari (=100 giornate di lavoro, cfr. Matteo 20,2), una somma cioè seicentomila volte inferiore al debito che gli era stato condonato. Alla preghiera, identica a quella espressa da lui poco prima, il servo non prova alcuna misericordia, ma fa cacciare il malcapitato in prigione con tutti i suoi familiari (l’impegno o la promessa di pagare il debito fatta dal debitore maggiore al versetto 26 era inadempibile, mentre questa fatta dal debitore minore al versetto 29 è adempibile: in qualche modo si può saldare un debito che ammonta a sole cento giornate di lavoro). La volgarità di questo sperperatore di miliardi (oggi milioni di euro) richiama alla mente il giudizio che Tacito dà del procuratore Antonio Felice (cfr. Atti 24,25ss): “Ius regium servili ingenio exercuit” (“Per omnem saevitiam ac libidinem ius regium servili ingenio exercuit”, esercito un potere regio con ingegno servile tramite ogni crudeltà e sfacciato piacere); “lui che prima era stato un liberto esercitò un’autorità regia con mentalità di schiavo” (Publio Cornelio Tacito, Historiae 5,9).
Il re e il servo. Gli spettatori (i conservi) dell’increscioso episodio ne restano indignati (addolorati oltremodo, elypethesan) e riferiscono tutto al re, il quale, dinanzi a tale grettezza, rimprovera il servo per il suo comportamento spietato e lo condanna alla tortura fino alla restituzione totale del debito, praticamente impossibile, dei suoi dieci mila talenti (“Non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?” (18,33), domanda il signore al suo servo; secondo la legge degli uomini, la risposta sarebbe un no. Nessuno mi può obbligare a fare a un altro ciò che è stato fatto a me. Ma Gesù, con questa parabola, mostra che i rapporti non avvengono più su un piano puramente legale, bensì secondo la logica e i criteri del regno, a imitazione dell’agire di Dio: chi è oggetto del perdono di Dio deve diventare soggetto di perdono verso gli altri; la grazia di Dio rende insopportabile persino la vista di tutto ciò che è contrario alla vita del regno). “Lo consegnò agli aguzzini” o “torturatori”; 18,34 (in questa condanna finale non sono più menzionati né la moglie né i figli). La tortura nell’Antico Oriente s’infliggeva agli amministratori per costringerli a rivelare il nascondiglio dove avevano occultato le entrate del re.
La conclusione presenta l’insegnamento della parabola: “Così anche il mio Padre che sta in cielo farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (18,35).
(Il tipo di parabola). Si tratta di una parabola leggendaria (incredibile, insolita) e iperbolica: le favole amano i re, il debito è espresso nella misura massima concepibile, “una miriade di talenti”, quasi inconcepibile. La bontà del re che condona il tutto è sorprendente e senza spiegazione, se non nella bontà del re. Il fatto del servo che prende un suo dipendente per la gola e lo getta in prigione a motivo di un debito insignificante (che non risolverà nessun suo problema) è un opposizione al primo (servo): si tratta di estremi che trasportano il racconto dalle posizioni umane a quella divina.
Gli insegnamenti della parabola. Eccone alcuni più importanti. Primo. La simbologia dei numeri, amata nella Bibbia, sottolinea l’enorme distanza tra la grandezza del perdono divino nei nostri riguardi e la piccolezza dei nostri perdoni. Solo con Dio l’uomo può contrarre debiti tanto smisurati, e solo Dio può rimettere delle somme così ingenti. Eppure spesso di fronte alla grande misericordia divina, che risulta fin troppo eccessiva all’ottica umana, fa stridente contrasto la meschinità dell’uomo che schiaccia i propri fratelli per difendere i suoi piccoli interessi (come accadeva persino nella chiesa di Corinto, cfr. 1 Corinzi 6,6-8). Dio, in Gesù, supera la legge della “giustizia” per inaugurare quella dell’amore che condona e crea rapporti nuovi di solidarietà tra gli uomini. Il servo spietato è rimasto invece allo stadio del precedente spirito legalistico, che in fondo non fa altro che adempiere la legge senza l’amore necessario. Vi è quindi un rapporto di ostilità e rancore, di sospetto e di rivincita. Secondo. Il motivo per cui noi dobbiamo perdonare sta nel fatto che noi pure siamo stati perdonati da Dio, per cui dobbiamo essere imitatori del nostro Padre divino: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta in cielo” (Matteo 5,43-48). Qui sta la diversità tra il perdono cristiano e quello non cristiano. Presso i pagani qualche spirito eletto, per principi umanistici, ritenne l’amore del prossimo e dello stesso nemico come una forma di virtù dettata dalla dignità umana e dalla forza del carattere. “È cosa onorifica”, insegnava Seneca, “ripagare, al contrario, il male con il male; nel primo caso è vergognoso lasciarsi vincere, nel secondo è vergognoso il vincere”. E ancora: “L’uomo è per l’uomo qualcosa di sacro” (questa affermazione di Seneca diverrà il motto di tutto l’umanesimo nell’ellenismo). Ma per il cristiano il perdono è frutto del perdono di Dio: “Se Dio ci ha amato tanto, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro” (1Giovanni 4,11). I misericordiosi troveranno misericordia (Matteo 5,7). Terzo. Il perdono deve poi essere dato non a malincuore o a fior di labbra, bensì “di cuore”, come dice Gesù al termine della sua parabola. Deve essere come lo è un perdono sincero e profondo, secondo un’espressione antropomorfica, “nelle sue stesse viscere”. Tale sincerità è segno di autentica religione, nella quale non vi è posto per l’ipocrisia e la doppiezza dei sentimenti (cfr. Matteo12,7). Gesù non guarda infatti all’esterno, ma prima di tutto giudica il segreto del nostro cuore, vale a dire i pensieri, gli atteggiamenti interiori, che abbiamo verso il nostro prossimo. Rifiutare il perdono significa ripudiare il vangelo della misericordia e del perdono gratuito di Dio nel modo più brutale e irragionevole. Quarto. Il re che prima era apparso tanto generoso, alla fine si mostra terribilmente esigente, in quanto il suo dono e il suo amore è stato disprezzato. Se l’amore di Dio non lo sappiamo ridistribuire, siamo indegni di riceverlo ed egli ce lo ritira! “Così anche il Padre farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore il vostro fratello” (18,35). I verbi sono al futuro e si riferiscono quindi al giudizio finale, al “carcere eterno” da cui non si potrà mai uscire, data la grandezza del debito contratto con Dio (l’espressione “fino a che non avesse pagato il dovuto” del versetto 34 può soltanto voler dire che la pena non ha fine). Dio ci giudica quindi secondo la nostra capacità di amare e di perdonare. I membri della comunità di Dio ricevono di continuo il perdono da Dio e lo ridistribuiscono ai fratelli con umiltà e sincerità (cfr. Matteo 6,12).
Nota degli editori. Questa parabola de Il servo spietato (Matteo18,23-35) è tratta dagli appunti scritti a mano di Fausto Salvoni (1907-1982) sulle parabole di Gesù. I vocaboli greci, i testi biblici, le citazioni extrabibliche di autori ebrei e cristiani, le citazioni complete di Tacito e Seneca, le note riportate in parentesi, e alcune piccolissime parti mancanti nel manoscritto, sono di Paolo Mirabelli, che ne ha curato la revisione. La trascrizione dei testi è di Cesare Bruno e Roberto Borghini.