Nel libro del Deuteronomio sono contenuti i discorsi (le parole) di Mosè al popolo d’Israele, dopo i quaranta anni nel deserto, prima dell’ingresso nella terra promessa, al di là del Giordano (vale a dire in Transgiordania), nel paese di Moab. Motivo per cui anticamente era chiamato “libro delle parole” (in ebraico debarim), che sono le prime parole con le quali inizia il Deuteronomio. Il libro contiene le parole che Mosè riceve da Dio e trasmette a Israele. Mosè viene presentato come il legislatore, il mediatore, ma anche interprete della Torah: colui che spiega la legge (1,5). La sua non è una esegesi del testo nel senso moderno: non fa una lettura ermeneutica dei brani, bensì racconta la storia e le tappe del cammino d’Israele durante i quaranta anni, mostrando i pericoli dell’infedeltà e i benefici della fedeltà a Dio. Nel suo primo discorso, Mosè ricorda il motivo (l’incredulità e il peccato) della vecchia generazione uscita dall’Egitto, per cui un viaggio che doveva durare “undici giornate di cammino” (1,2) sia poi durato quaranta anni: dall’Oreb a Cades-Barnea (l’Oreb è l’altro nome del monte Sinai). Richiama poi il motivo per cui durante il cammino siano stati scelti e costituiti degli uomini “saggi, intelligenti e conosciuti” che condividessero con lui la guida del popolo, “il vostro carico, il vostro peso, le vostre liti” (1,13-14). Rievoca l’episodio dei dodici esploratori, raccontato in Numeri 13 e 14, come paradigma in cui esorta ad avere fiducia in Dio nella conquista della terra promessa, senza scoraggiarsi né spaventarsi per i popoli che abitano la terra (le sette popolazioni autoctone) e la presenza dei giganti (anachiti), poiché il Signore è con loro come un guerriero che combatte e un padre che si prende cura del figlio (1,22-33).
Dopo questi fatti e discorsi introduttivi, Mosè racconta, nei capitoli 2 e 3, l’ultima tappa del viaggio nel deserto, dopo che il popolo era tornato indietro, in direzione del Mar Rosso, e aveva girato per lungo tempo intorno al monte Seir (2,1). La vecchia generazione incredula uscita dall’Egitto si è ormai consumata nel deserto (2,14.16), eccetto Giosuè e Caleb, e il tempo di riprendere il cammino è giunto: il dono della terra promessa attende la nuova generazione. Il Signore invita Mosè e Israele a incamminarsi verso settentrione (2,2). In questo viaggio verso la terra promessa, Israele incontrerà diversi popoli: alcuni sono fratelli (o parenti), come i discendenti di Esaù e quelli di Lot, e Israele dovrà passare in pace; altri sono popolazioni cananee, e Israele dovrà entrare in guerra con loro, perché il Signore li ha giudicati e dati in loro potere. Per i primi non viene usata una designazione geografica o nazionale, ma parentale: sono definiti “figli di Esaù” e “figli di Lot”. A loro il Signore ha promesso (vedi Genesi) una posterità e un territorio. Mentre delle popolazioni cananee aveva detto ad Abramo che sarebbero state cacciate dalla terra quando “l’iniquità degli Amorei giungerà al colmo” (Genesi 15,16). Per la teologia deuteronomica, tutti i popoli coinvolti in questi eventi sono sotto il governo di Dio: niente accade per caso, tutto e regolato da Dio, egli è il Signore della storia. Vi è qui una teologia della storia. Anche il profeta Amos attribuisce a Dio l’esodo dei figli d’Israele e l’esodo di altre nazioni (9,7). L’esodo d’Israele è presentato così come evento teologico, voluto da Dio, non come un semplice fatto sociologico. Persino l’opposizione del regno di Sicon, secondo il Deuteronomio, rientra sotto l’agire sovrano di Dio. Infatti, il Deuteronomio riferisce che Sicon, re di Chesbon, non volle lasciar passare i figli d’Israele per il suo paese e territorio perché “il Signore gli aveva indurito lo spirito e reso ostinato il cuore” per metterlo nelle loro mani (2,30). Come faraone, re d’Egitto, anche Sicon, a causa del suo peccato, è sotto il giudizio di Dio; e l’ostinazione del suo cuore porta alla guerra e alla conquista del territorio, che passa a Israele. Anche il regno di Og viene dato da Dio nelle mani degli israeliti (3,1-3). Lo stermino dei due regni, con l’uccisione di uomini, donne e bambini (2,34; 3,6), non vuole certo essere un modello di come debbano comportarsi i cristiani in caso di guerra. La Bibbia, con la venuta di Gesù, ci insegna a vincere l’odio con l’amore e a pregare per i nostri nemici. Questo è un punto fermo, e indietro non si torna. Non vale nemmeno il ragionamento di chi sostiene che qui sono i figli d’Israele a compiere lo sterminio come atto sacro di devozione alla propria divinità, secondo la consuetudine pagana del tempo. Il Signore, il Dio d’Israele, non vuole nessuno sterminio di uomini come atto di culto. Piuttosto vale qui il principio di estirpare le popolazioni cananee dal paese per evitare la contaminazione religiosa e il sincretismo con la cultura immorale e pagana cananea del tempo.