La parabola dei due figli invitati dal padre ad andare a lavorare nella vigna è riportata dal vangelo di Matteo nel contesto dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme (Matteo 21,28-32). Non si trova negli altri vangeli. Matteo ha a cuore il rapporto tra Israele e Gesù, la sinagoga e la chiesa. È del tutto evidente che il suo vangelo fu scritto per i cristiani di origine ebraica. La parabola vuole mostrare il pentimento di coloro che accolgono l’invito del Vangelo: alcuni inizialmente dicono “no” a Dio, poi però, quando ascoltano la parola della predicazione, si pentono e fanno la volontà di Dio. Il figlio che dice “sì” al padre ma poi non va a lavorare nella vigna rappresenta i capi religiosi del tempo, i quali rifiutarono (non tutti) di credere in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Fatto questo attestato dai vangeli. Mentre il figlio che dice “no” ma poi si pente rappresenta i peccatori, i pubblicani e le prostitute, che accolgono la predicazione del Battista (e poi di Gesù). Entrambi i figli della parabola sono in contraddizione tra il dire e il fare, ma uno solo si pente e poi fa.
Il tema specifico di questa parabola non è la difficile relazione tra genitori e figli, ma il pentimento e l’accoglienza dell’invito del Vangelo. Tuttavia, essa illumina, aiuta a cogliere e a comprendere, molto meglio di un freddo trattato di pedagogia, quale dovrebbe essere l’atteggiamento dei figli nei confronti del padre, e come essi dovrebbero onorare i loro genitori. Tema molto caro al vangelo di Matteo, da quanto emerge nel discorso sulle tradizioni degli antichi, usate dai farisei per cercare una giustificazione al rifiuto di assistere fino alla morte i propri genitori (capitolo 15 del vangelo). Ma il tema del difficile rapporto tra genitori e figli è molto attuale ancora oggi. A nessuno piace avere un figlio che dice “no” al padre o alla madre. Ma nemmeno un figlio che dice “sì” e poi non fa ciò che i genitori gli chiedono. Il nostro è un tempo permissivo, un tempo in cui i genitori sono assenti nella vita dei figli, per questo siamo abituati a sentire tanti “no” da parte dei figli. Dopo i movimenti giovanili degli anni Sessanta, noi ci siamo abituati alla disobbedienza degli adolescenti nei confronti dei genitori. E non solo in questioni sessuali. Ai giovani oggi viene concesso di fare di tutto e di dire tutto ciò che gli passa per la testa. A dire il vero, forse oggi il fenomeno è meno diffuso rispetto a qualche decennio fa. La colpa non è solo dei giovani, dei ragazzi: i genitori sono responsabili della confusione e del non senso che i figli vivono. Al tempo in cui la parabola venne raccontata, predicata da Gesù, e al tempo in cui il vangelo venne scritto, in una società patriarcale come quella di allora, un ragazzo disobbediente che di punto in bianco dicesse “no” al padre era assolutamente inaccettabile; era considerato un fatto scandaloso. Il figlio che diceva “no” creava una rottura e si esponeva a un conflitto, non solo interiore con se stesso, ma con il padre. Essere disobbedienti significava disonorare i propri genitori. Mentre un ragazzo che oggi dice “sì” ma poi non fa ciò che deve fare è del tutto normale, nessuno ci fa più caso, nella nostra società post-moderna, terapeutica che si considera emancipata da ogni regola etico-morale. In fondo la parabola ci fa riflettere su un fatto: il ragazzo che sbaglia, che fa un errore, che dice “no” al padre, ha la possibilità di pentirsi, di ritornare a lui. Nessuno è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione, un rapporto venuto meno. Mentre il ragazzo che dice “sì”, che appare pronto e obbediente al padre, ma poi non fa la sua volontà, è soltanto uno che dice e non fa, proprio come quei farisei che Gesù censura (Matteo 23,3). Una vita solo di belle parole, di tanti buoni propositi, di molti “sì” di circostanza, ripetuti di continuo, non serve a nulla se non è seguita dai fatti.
La parabola non può essere usata per dire che “le parole non contano nulla nella vita”. Forse è così nella nostra società del fare, post-kantiana, dove le parole sono diventate vuote. Ma non è questo il tema della parabola. E allora usare questa parabola per relativizzare il valore delle parole significa immettere nel testo, fare eisegesi (e non esegesi), un senso e uno scopo estranei. Tutti noi abbiamo esperienza di come le parole feriscono, di come fanno male, oppure di come possono incoraggiare e aiutare qualcuno. Secondo Gesù, le parole sono l’espressione di ciò che uno ha nel suo cuore (Matteo 12,33-37), per cui diventano motivo di giudizio. Il cristiano dovrebbe dire ciò che fa e fare ciò che dice, e onorare il detto evangelico: “Sia il vostro parlare: Sì, sì; no, no” (Matteo 5,37).
Il greco “proagousin umas” (21,31) andrebbe tradotto: “Vi precedono”. Il significato: peccatori e prostitute pentiti vanno nel regno di Dio, piuttosto che voi (capi) che non vi siete pentiti.