Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Il capitolo 18 del vangelo di Luca si apre con un dittico sulla preghiera. Le due parabole insegnano che la preghiera deve essere incessante (la prima) e deve essere fatta con umiltà davanti a Dio (la seconda). Il commento che segue volge unicamente sulla parabola del fariseo e del pubblicano. Il lettore conosce dall’inizio il motivo per cui Gesù racconta la parabola (18,9). Come ogni parabola, anche in questa abbiamo due situazioni: l’una verosimile (quante volte è accaduta la scena descritta nella parabola) o immaginaria (due uomini salirono al tempio), l’altra reale (alcuni confidavano in se stessi di essere giusti e disprezzavano gli altri). La parabola raggiunge il suo scopo quando la situazione fittizia si “trasferisce” a quella reale, il greco para-ballo (parabola) significa infatti “trasferire”, sicché colui che disprezza gli altri si riconosce nel fariseo che si esalta.


Il fariseo e il pubblicano sono due figure antitetiche tra loro, rappresentano i due estremi opposti nel mondo giudaico: colui che vive secondo la legge, il primo, colui che vive nel peccato, il secondo. Il fariseo è il tipo di persona religiosa che ti aspetti di incontrare nel tempio e di trovare in un contesto di preghiera. Il pubblicano invece, un esattore delle tasse, solitamente un disonesto e un traditore dei propri connazionali, è l’immagine di un uomo che nulla ha a che fare con la preghiera, perché vive in un mondo di peccato lontano da Dio. Perché la parabola mantenga il suo messaggio non bisogna presentare il fariseo come un furfante e il pubblicano come un eroe, giacché così allora ciascuno riceve ciò che merita. La parabola dice il vero su entrambi. Il fariseo è veramente un uomo impegnato in pratiche religiose: di quale indegnità è colpevole? E il pubblicano è veramente uno dato al peccato: che cosa fa per riparare la sua colpa? Ecco perché la parabola di Gesù costituisce uno shock. Se qualcuno deve tornare a casa sua giustificato, questi deve essere il pio fariseo, non il pubblicano. La parabola non dice tutto sulla giustificazione, ma mostra come Dio giudica. La conclusione della parabola parla, attraverso un parallelismo antitetico, del comportamento di Dio e del rovesciamento degli esiti: egli umilia i superbi ed innalza gli umili.


I due tipi di oranti hanno in comune l’intenzione (pregare) e lo spazio (il tempio). La differenza è nell’atteggiamento e nel contenuto della preghiera. L’atteggiamento di ognuno esprime il rispettivo modo di porsi di fronte a Dio. Il fariseo sta in piedi, “rivolto a se stesso” (pros heauton),  e inizia con un solenne atto di ringraziamento. Il pubblicano, cosciente del proprio peccato, non osa avvicinarsi e non alza lo sguardo al cielo, ma si batte il petto e chiede pietà a Dio. Secondo la concezione comune dei giudei del tempo, per un pubblicano non c’è salvezza: perché si arricchisce col denaro delle tasse e collabora con i romani, ponendosi contro il popolo.  Il contenuto della preghiera di ognuno corrisponde al senso dell’atteggiamento esterno. In fondo il fariseo ringrazia Dio per il fatto di essere un campione di giustizia: elenca prima le cose che non fa e poi le cose che fa. Ciò che fa può anche essere lodevole: nessuno è obbligato a digiunare se non nel giorno dell’espiazione, mentre egli lo fa due volte alla settimana; paga la decima su tutto. Il fariseo paga, il pubblicano riscuote e ruba. Il fariseo supera le richieste della legge; egli incarna l’ideale di colui che adempie le opere della pietà giudaica. Dio non può agire diversamente con lui, poiché è giusto, e con le sue opere pie egli rende Dio suo debitore. Ma la preghiera del fariseo, con l’elenco delle sue prestazioni, è orgogliosa; a questo si accompagna pure il disprezzo che ha per gli altri e la sufficienza che prova davanti a Dio. Egli getta uno sguardo iniziale su Dio, ma contempla se stesso. Manca poco che faccia i complimenti a Dio per se stesso. Ringrazia non per ciò che Dio fa per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il suo “io” si sostituisce a “Dio”. Il pubblicano invece sa che non ha nessun merito da esibire, può solo invocare la misericordia di Dio; ha solo consapevolezza del suo peccato, e la esprime con le parole del Salmo di Davide: “Abbi pietà di me, o Dio!”. (51,1).


“Io vi dico”: il giudizio di Gesù arriva con autorità e capovolge lo schema delineatosi con le due preghiere. Iniziando dal secondo, anziché dal primo, Gesù introduce il ribaltamento: costui ritorna a casa sua giustificato; mentre l’altro, il fariseo, che vanta grandi meriti, rimane nel peccato. Il fariseo, che usa la propria giustizia e quella umana come criterio per valutare se stesso, pretende approvazione. Il pubblicano invece, che si confronta con la giustizia di Dio, confessa che la sua vita è tutta un fallimento, uno schifo; spera soltanto nella misericordia di Dio, e Dio lo giustifica.

Paolo Mirabelli

28 febbraio 2017

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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