Ci sono alcuni credenti che quando si incontrano durante le riunioni della chiesa non fanno altro che raccontarsi le loro esperienze spirituali. Dicono: “Non importa ciò che fai o che cosa pensi, ciò che conta è come ti senti”. È ciò che provi, secondo costoro, che dice la verità su una determinata esperienza spirituale. È il soggetto che nella sua soggettività decide ciò che è vero e ciò che è falso. Se uno si sente bene ed è euforico, se “non si annoia” (così dicono), allora l’esperienza religiosa che sta vivendo è vera e giusta. Se uno invece prova, ad esempio, un senso di colpa, ciò significa che la sua esperienza spirituale non è autentica. E non è tutto. Poiché al centro degli incontri è posto “l’uomo con il suo sentirsi bene e non annoiarsi”, le riunioni cultuali della chiesa hanno subito una vera e propria mutazione. I sermoni, intesi come discorsi espositivi della Parola di Dio, sono stati sostituiti da brevi messaggi a forma di spot pubblicitari che inneggiano al pensiero positivo. Le preghiere sono diventate misteriche, urlate, dai contenuti incomprensibili. Soltanto la “raccolta delle offerte” (la colletta) è rimasta sempre la stessa. Che dire? Quali riflessioni si possono fare? E, soprattutto, che cosa dice la Scrittura in merito? Ecco tre brevi considerazioni.
La prima. Raccontare ad altri la propria esperienza di fede non ha niente di sbagliato, anzi può incoraggiare la fede delle persone. Non è la testimonianza in discussione, semmai è il suo contenuto che va esaminato. Incoraggiare a vivere delle esperienze di fede serve alla crescita spirituale e anima la fede, ma non è l’esperienza in sé che va ricercata, piuttosto l’incontro con Dio, il Dio della Parola. È certamente bello e buono, oltre che desiderabile, sentirsi bene, ma il sentirsi bene non può essere il criterio ultimo per stabilire se una esperienza spirituale sia vera, autentica e, soprattutto, biblica, vale a dire fondata sulla Bibbia. Il modo come uno si sente, lo stato d’animo che prova, può non corrispondere all’autenticità di una determinata esperienza spirituale. Un solo esempio tratto dalla Scrittura. In Atti capitolo 2 si dice che, all’udire il discorso di Pietro, i presenti “furono compunti nel cuore” (2,37). Il verbo greco katanyssomai (composto da kata e nysso) significa “essere trafitto, avere il cuore tagliato in due” (nysso è usato in Giovanni 19,34). Questo per dire che la predicazione di Pietro toccò profondamente i presenti di Pentecoste e li sconvolse, li fece sentire in colpa, sotto accusa; li spinse a riconoscersi peccatori, a tal punto che chiesero a Pietro e agli altri apostoli: “Che dobbiamo fare?”. E la risposta fu: “Ravvedetevi”. Come dobbiamo considerare questa esperienza di Pentecoste? Vera e autentica, oppure non-autentica e falsa? Se il criterio è il sentimento che la persona prova, allora la si valuterà negativamente. Ma ogni discepolo di Gesù invece sa che ci troviamo di fronte ad una esperienza autenticamente vera e biblica, sa che la tristezza secondo Dio produce ravvedimento.
La seconda. In merito alle esperienze di fede nel contesto biblico si può ancora dire che ogni esperienza passa attraverso tre momenti: il contatto con situazioni provocanti, l’interiorizzazione del significato, l’espressione attraverso un sistema simbolico. Anche qui un solo esempio. La liberazione dalla schiavitù egiziana e il passaggio del Mar Rosso è un tipico esempio di esperienza che segna la storia del popolo di Dio. Attraverso questo fatto straordinario, Israele coglie un messaggio che si trasforma in atteggiamenti di vita e di fedeltà al Signore. Da questa esperienza, Israele capisce che il Signore è più forte del più forte degli eserciti, che la mano di Dio può liberare dal mare che sta davanti a loro, impedendo il cammino, e può liberare dal faraone e dal suo esercito, che stanno dietro di loro e vorrebbero ricondurre gli ebrei nuovamente in schiavitù. L’esperienza non è fine a se stessa, ma rimanda ad un messaggio, educa alla fede e parla di Dio.
La terza e ultima considerazione. Secondo la Bibbia, non ogni esperienza religiosa o spirituale è vera, autentica e biblica. Per essere tale, deve far riferimento a Dio, a Gesù, alla Scrittura, e deve essere suscitata dallo Spirito Santo (1 Corinzi 12,3). Nell’esperienza spirituale autentica, il credente incontra il vero Dio e sa cogliere un messaggio che cambia la sua vita. E allora, come cristiani che esaminano ogni cosa alla luce della Scrittura e ritengono solo ciò che è buono, non possiamo accogliere ogni “esperienza religiosa”, ma riconosciamo come vere, autentiche e bibliche soltanto quelle “esperienze spirituali” che nascono dall’incontro con Gesù Cristo, il Signore.