Il capitolo 7 della lettera ai Romani si chiude con una domanda angosciosa sulla condizione di morte, di peccato e di prigionia in cui si trova l’uomo (7,24), alla quale però fa seguito una preghiera di ringraziamento a Dio per aver provveduto un liberatore: Gesù Cristo (7,25). Il capitolo 8 dà spessore teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato e dalla morte; la stessa legge lo signoreggia più, poiché è sotto la grazia ed è condotto dallo Spirito. La guida e la mozione dello Spirito conduce verso la pienezza della redenzione. Lo Spirito è il centro focale del capitolo 8, lo si nota anche statisticamente: compare ben 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 volte in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne viene espresso in diversi modi, come risulta dai versetti 4 fino a 13, che indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, il pensare. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare la vita nel presente e nel futuro (7,13).
L’antitesi paolina non va confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, ad esempio, conosce l’antitesi tra anima e corpo: la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Per Paolo invece l’antitesi ha carattere dinamico-esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come alla maniera greca. Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre, lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un possesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.
È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra in modo chiaro la dimensione della vita: “Voi non siete nella carne, ma nello Spirito” (8,9). Non avere lo Spirito significa privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita. Privarsi dello Spirito ha come è ovvio delle implicazioni con la giustizia. Il tema della giustizia (8,10) così si arricchisce sia sul piano dei contenuti, perché si comprende l’azione dello Spirito, sia su quello della linguistica, perché si introduce il concetto di “vita” (8,11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.
Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne (8,1-13), prende avvio il tema della figliolanza divina (8,14-17). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. Il versetto 14 e la tesi o l’enunciato che dà spessore teologico a tutto il brano, e questo enunciato si fonda su due poli: la guida dello Spirito e la figliolanza divina. È importante notare che la seconda dipende dalla prima. In altre parole, per Paolo lo Spirito abilità ad essere figli di Dio: soltanto chi è condotto dallo Spirito di Dio o di Cristo è figlio di Dio. È lo Spirito che ci fa dire e pregare: “Abbà, Padre!” (8,15), che attesta che siamo figli di Dio (8,16). Il giudaismo conosce la paternità di Dio, ma la vive in maniera lontana. Mentre i cristiani sanno che è la formula caratteristica usata da Gesù nei confronti del Padre. In Gesù Cristo e condotti dallo Spirito, i cristiani vivono la paternità divina in maniera confidenziale, poiché sanno che Dio è Padre e sentono di essere suoi figli.