È vero. Anche nella preghiera si ripercuote la crisi di istituzione che attraversa la chiesa, oggi. Ma c’è una cosa che va premessa subito. Quando io pronuncio la parola “chiesa” pronuncio il mio nome. È necessario cioè identificarsi con la chiesa, non vedendola più dal di fuori ma dal di dentro di me stesso. I difetti della chiesa sono i miei difetti. Dobbiamo lavorare per contestare prima noi e poi gli altri, per cambiare prima noi e poi gli altri. Gli altri cambieranno se io mi impegno a cambiare. Ma come io contesto i miei difetti, così devo contestare quelli degli altri. Non è sbagliata la contestazione, purché sia vera, onesta e motivata per il bene. Un’altra cosa. La prima istituzione siamo noi stessi: io divento istituzione a me stesso.
Le istituzioni sono in crisi: è un fatto. È chiaro che anche la preghiera è andata in crisi, perché anch’essa è stata istituzionalizzata. Ma chi l’ha istituzionalizzata? Io, tu, noi che preghiamo male, che abbiamo ridotto la preghiera a parole vuote, al dover dire qualcosa, comunque. Tutti insieme abbiamo cooperato. Ora si tratta di liberarci dalle istituzioni e di ridare alla preghiera la sua forza, bellezza, freschezza.
Oggi molti non pregano più. Perché? Perché non vogliono assolutamente più ripetere parole vuote e formule che non hanno senso, perché non hanno più un rapporto con il Dio al quale la preghiera è rivolta. Ma io prego ancora, o sono tra quei molti che non pregano più?
Dobbiamo ricostruire. Ciascuno deve mettersi a ricostruire. Dobbiamo liberare la preghiera dalle forme vecchie, ritrovando però i contenuti autentici: il rapporto tra me e Cristo, tra me e lo Spirito. Dobbiamo riprendere il cammino di fede nella Parola di Dio e cibarci ogni giorno della Parola. Dobbiamo riscoprire il nostro rapporto con Dio, se vogliamo imparare di nuovo la preghiera.