Tutta la storia del pensiero cristiano è un “di più” rispetto alle Scritture, vale a dire che ciò che noi diciamo e scriviamo non coincide esattamente con il testo sacro, nel senso che nessun ripete parola per parola ciò che la Bibbia dice, ma va oltre le Scritture. Anche nella predicazione, prima si legge il testo biblico e poi si fa un discorso (un sermone, secondo alcuni; una omelia, secondo altri), che cerca di far comprendere il testo che si è letto. Non è il “di più” che fa problema, ma è il contenuto che c’è nel “di più”, poiché può essere legittimo o illegittimo, biblico o anti-biblico.
Fino al III secolo i cristiani subirono numerose persecuzioni a motivo della loro fede che li faceva apparire diversi da tutti: non avevano templi dove pregare, vivevano tutti come fratelli, non avevano rappresentazioni visive del loro Dio, si amavano e si sostenevano vicendevolmente. Con la fine del paganesimo e la svolta costantiniana cambiarono molte cose in seno alla chiesa e nel cristianesimo: alcune in meglio, altre in peggio; si ebbero sviluppi legittimi e sviluppi illegittimi.
Dalle fonti sappiamo che nel IV secolo gli uomini erano molto religiosi, ma anche superstiziosi e sincretisti: accanto al Vangelo cominciarono ad affiancarsi credenze pagane, idee filosofiche e gnostiche, riti delle religioni misteriche orientali; anche la politica fece il suo ingresso nella chiesa. L’insegnamento genuino del Vangelo e la fede delle origini furono così sconvolti. Quell’ideale di chiesa descritto nel capitolo 2 degli Atti degli Apostoli e il modello (typos) di insegnamento del Nuovo Testamento furono corrotti e mescolati con elementi che nulla avevano a che fare con Gesù e gli apostoli. Tuttavia, non mancarono coloro che si richiamavano alla semplicità delle origini. Gli aggettivi che si formano con il suffisso di possibilità –bile (possi-bile) cominciarono a prendere il prefisso –in (im-possibile); la h che esprimeva l’elezione (Abramo che diventa Abrahamo; Sara che diventa Sarah) divenne elemento di divisione. Al “siamo solo cristiani” fu necessario aggiungere un aggettivo che ne determinasse il tipo di credo (cristiani di che tipo?). Le chiese entrarono in lotta tra loro e cominciarono a chiedersi quale fosse la tradizione apostolica vera e genuina, poiché il falso si mescolò o fu confuso con il vero, e il vero con il falso.
Nella tarda antichità si confrontarono due scuole di esegesi: quella alessandrina e quella antiochena: la prima usava l’allegoria per spiegare la Bibbia, la seconda il metodo letterale: la prima cercava di capire che cosa credere, la seconda che cosa fare. In seguito, nel primo e nel secondo millennio, sono sorti gruppi di credenti che hanno privilegiato un aspetto anziché un altro: alcuni hanno messo enfasi sulla pratica (il fare) del cristiano; altri invece hanno privilegiato il credere. Alcuni dicevano: l’ortoprassi stabilisce l’ortodossia; altri invece: l’ortodossia governa la prassi. Senza entrare nel merito e dare un giudizio sulle due scuole teologiche, proviamo ad assumere le due prospettive per farne un modello unitario che tenga conto del fare e del credere. In fondo, tutti gli uomini, almeno nelle intenzioni, fanno ciò che pensano; quanto più il cristiano è tenuto alla coerenza tra il credere e il fare. È vero che oggi, almeno in occidente, è avvenuta una scissione tra il dire e il fare: si dice una cosa, se ne fa un’altra. C’è un credere che è legittimato dalla fede biblica e c’è un credere che non è fede biblica (anche i demoni credono, dice Giacomo): è religione, è altro. C’è un fare che nasce dalla fede (sempre Giacomo, ma anche Paolo) e c’è un fare che non è fede.
Duemila anni dopo è cambiato il mondo, ma non il credere, il fare, la comunione, la fedeltà a Dio. Credere, fare, comunione, fedeltà, un tempo appartenevano a un unico vocabolario, non quello dei concetti teologici, ma quello del cristiano: il cristiano crede ciò che la Bibbia insegna, fa ciò che la Bibbia dice, vive in comunione con quanti hanno comunione con Dio, in Cristo, tramite lo Spirito, nella Parola; ha fratellanza con tutti coloro che il Padre riconosce come suoi figli, mediante la nuova nascita. C’è una prossimità dei corpi che può non essere prossimità e comunione di cuori, di intenti, di fede. C’è una vicinanza che altro non è che lontananza. Si può essere vicini all’altare e lontani da Dio, come Caino o il fariseo nel tempio che prega. Duemila anni dopo siamo chiamati non a rispolvera il vecchio di qualche anno fa, perché va di moda restaurare, bensì a riscoprire e a vivere ciò che è per sempre: le parole di Gesù. Cielo e terra passano, le sue parole restano, perché sono spirito e vita, perché creano la novità di Dio, perché sono le parole della Parola, che nel tempo si è incarnata ed è venuta in mezzo a noi a recarci la grazia e la verità.