Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Prefazione degli editori. Tra gli appunti scritti a mano di Fausto Salvoni abbiamo ritrovato dei frammenti che riguardano il libro di Giobbe. Si tratta di poche note scritte su una “questione di scuola” molto dibattuta in quegli anni: “Una nuova interpretazione di Giobbe 42,2-6”. Non è stato facile trascriverli, ma ancora più difficile è stato cercare di dargli un senso. Il testo è incompleto e gli autori citati da Salvoni non si sa chi siano, la loro identità risulterebbe utile per ricostruire il loro pensiero. Il risultato è che questo studio cita uno scritto di Salvoni che a sua volta cita altri scritti. Dopo una attenta lettura degli appunti di Salvoni, ci è sembrato di capire che la questione sollevata da certuni era se Giobbe si pentì, come riportano le nostre traduzioni della Bibbia, o se rifiutò Dio. Gli autori citati da Salvoni sostengono la tesi del rifiuto, che non significa negare l’esistenza di Dio, bensì l’immagine di Dio impassibile di fronte alle sofferenze del povero Giobbe, un Dio totalmente altro e onnipotente per potersi occupare delle misere vicende umane. Giobbe rifiuta quel Dio che si è disinteressato alla sua sofferenza; egli non riesce ad accettare l’idea di un giudice ingiusto che se ne infischia di chi soffre, pervertendo così il diritto. A nostro avviso, invece, il libro di Giobbe e l’intera vicenda ha senso solo se si conclude con il pentimento di Giobbe e il reintegro: Dio ha dato, Dio ha tolto, Dio ha ridato. Il Giobbe che prima censura Dio (40,2) è lo stesso Giobbe che poi si pente (40,6); l’uomo che prima ha osato sollevare delle obiezioni a Dio e chiedergli udienza per la tempesta abbattuta nella sua vita, è lo stesso che poi, dopo la finestra apertagli da Dio sull’universo, si pente e cade in silenzio davanti a lui. C’è linearità e coerenza nel racconto, e non si vede perché debba creare problemi il pentimento di Giobbe. La traduzione che i sostenitori della tesi del rifiuto di Dio espongono nello studio non ha elementi convincenti per essere accolta e si basa su “presunte interpolazioni”, su una lessicografia particolare e su significati semantici un po’ azzardati e non comuni. La loro esegesi, anche se erudita, crea più problemi teologici di quanti dovrebbe risolverne. Il testo biblico va spiegato così come si presenta nel canone, non frammentandolo, né insinuando sospetti, né supponendo versioni inesistenti. Un merito dello studio degli autori a noi ignoti è quello di aiutarci a comprendere quanto sia stata sofferta la confessione di fede di Giobbe: noi sappiamo che si trattava di una prova, Giobbe no; egli ha dovuto confrontarsi con il pensiero di conciliare la fede in Dio e la grande sofferenza nella sua vita. Perciò questo studio di Salvoni, pur nella sua brevità, ci aiuta a non dare spiegazioni semplicistiche agli interrogativi che il libro pone sulla sofferenza e il dolore.  Al di là di queste premesse di merito, considerazioni e problematiche, abbiamo voluto pubblicare gli appunti di Salvoni non solo per renderli accessibili a tutti, ma anche per attirare attenzione e suscitare interesse verso il libro di Giobbe. La vicenda di Giobbe rimane affascinante e inquietante allo stesso tempo: ci affascina la storia di Giobbe e la bellezza del racconto, un capolavoro della letteratura mondiale; ci inquieta la sua sofferenza e il suo dolore. Crediamo che i perché posti davanti alla sofferenza di Giobbe e le risposte o i silenzi che troviamo nel libro possono dare sollievo in questo tempo di pandemia a quanti soffrono e si chiedono il perché di tanta sofferenza. Noi poi abbiamo la grazia di leggere Giobbe alla luce di Gesù Cristo, il giusto sofferente, che con la sua venuta ci ha mostrato il grande amore di Dio per l’uomo.


Introduzione di Salvoni. Di solito si pensa che nella sua risposta a Dio Giobbe mostri il proprio pentimento per quel che di sconsiderato aveva detto in antecedenza. Di fronte ai discorsi nei quali Dio mostra la sua potenza sul creato (38,16-27. 33-34) e la provvidenza con cui se ne prende cura, senza dimenticare i leoncelli o i corvi appena nati (38,39-41), Giobbe ammutolito confessa: “Sono stato troppo meschino, che ti risponderò? Mi metto una mano sulla bocca. Ho parlato una volta ma non prenderò due volte la parola” (40,4-5). Poi, secondo la traduzione comunemente accolta, continua: “Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere” (42,6). Questa ultima frase, di non facile traduzione, ha suscitato molte perplessità tra i commentatori. A Giobbe un Dio tutto occupato nel dirigere la gran macchina dell’universo e che non si interessa dei piccoli problemi riguardanti le sofferenze del giusto, non appare per nulla soddisfacente. Giobbe non dubita affatto della potenza e della provvidenza di Dio, ma critica questo Dio che ritiene indegno di sé l’interessarsi del minuscolo problema di un innocente che soffre. Perciò con un forte sentimento di ripulsa nei suoi riguardi, egli non intende più parlargli. La risposta di Giobbe, che nel testo attuale si ritrova divisa in due parti per la intromissione del secondo discorso del Signore, si legge in Giobbe 40, 4-5 e 42, 2-6. Ecco la traduzione che ne danno alcuni studiosi, alla quale farò seguire alcune motivazioni: “Benché io sia stato troppo leggero nel risponderti, mi metto una mano sulla bocca (ossia: cesserò di parlare). Ho parlato una volta, ma non replicherò più due volte, ma non continuerò”. Queste parole sono così parafrasate:


Parafrasi di alcuni autori e commento di Salvoni. “Benché io abbia parlato con te, o Dio, di cose che non ti sono importanti, cesserò di parlarti del tutto. Comprendo che tu puoi tutto e che nulla di quel che vuoi ti riesce impossibile. Tu mi dici: Chi è costui che privo di scienza oscura il consiglio di Dio?” (38,2); (e tu sei stato giusto nel dire ciò) “per quanto ho parlato senza capire, di cose troppo superiori che non comprendevo”. In altre parole, Giobbe dà ragione a Dio per avere detto parole avventate senza sufficiente conoscenza. Le ha pronunciate per la profonda amarezza della sua agonia, ma non credeva che Dio fosse davvero come egli aveva immaginato di lui. Ma ora l’apparizione divina e le parole di Dio hanno dimostrato che egli è proprio come aveva tristemente intuito Giobbe: un Dio insensibile al dolore umano. (Tu mi dici) “Ascoltami, ti prego, e io parlerò; ti farò domande e tu mi informerai” (cfr. 38,2-3). (Dopo quel che è accaduto, posso solo risponderti) “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto. Ho capito che sei intelligente, ed infinitamente potente, anzi puoi tutto; ma mi sono pure accorto che non sei giusto verso gli uomini.” Giobbe ormai è disincantato nei riguardi di Dio, perché la sua visione e le sue parole hanno confermato che Dio non è giusto verso gli oppressi. Per Giobbe non vi è altra alternativa se non quella di accettare un simile Dio o di rifiutarlo. E, amareggiato, lo respinge: “Perciò sento ripulsa (verso di te, o Dio) e sono triste per la debolezza umana”. È questo il versetto più discusso, del quale dobbiamo vedere se sia possibile una simile traduzione al posto di quella usuale: “Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere” (42,6). Alcuni lo affermano per le ragioni seguenti:


Argomenti degli autori citati da Salvoni. a) Il verbo tradotto “Sento disprezzo, ripulsa” usualmente si traduce: “mi ricredo, mi ritratto”. Eppure la radice del verbo non ha nella Bibbia il significato di “pentirsi”, ma solo quello di “rifiutare, rigettare, disprezzare”, con una carica emozionale quale è insita nei nostri “aborrire, detestare”. Nel libro di Giobbe si trovano due altri casi in cui la radice del verbo ha tale senso pur non essendovi indicato, come qui, l’oggetto della ripulsa: “Sento ripulsa (per Te, o Dio)! Non voglio vivere per sempre! Va via da me! I miei giorni sono solo un soffio di vento” (7,16). Nel secondo passo Eliu così dice: “Perché tu rifiuti Dio? (o senti ripulsa per lui?” (34,33). Questi due passi, paralleli con quello ora in questione, hanno come oggetto inespresso del rifiuto lo stesso Dio. Al contrario in Giobbe 36,5 si legge: “Dio è grande e non rifiuta” (non sente ripulsa, non respinge evidentemente Giobbe). Dal che appare che l’oggetto del verbo può essere espresso o sottinteso, e che mai esso significa “mi ritratto”. b) “Sono triste”, anche questo verbo non ha mai il senso di “mi pento, provo pentimento, mi ravvedo”. Ma anche in questo il senso, più aderente al contesto, è quello di essere assai triste, amareggiato. Il Targum di Giobbe rinvenuto a Qumran ha deliberatamente (a quel che pare) mutato il verbo, per togliere questo testo assai urtante per la fede ortodossa. c) “Per la debolezza umana” traduce l’espressione ebraica che letteralmente significa “sulla polvere e nella cenere”; contro l’uso comune di prendere queste due parole in senso locale, va notato che la loro combinazione ricorre solo tre volte nella Bibbia e vi acquista il senso di debolezza propria dell’uomo. Abramo dice: “Ecco, ti prego, ho intrapreso a parlare con il mio Signore, mentre sono polvere e cenere” (Genesi 18, 27). Giobbe dice di Dio: “Mi hai gettato nel fango ed io sono divenuto polvere e cenere” (30,19). Il terzo caso è il nostro Giobbe 42,6, dove Giobbe si rattrista “per la polvere e la cenere” (dell’uomo), ossia per la sua “fragilità” di fronte a Dio. Questo senso era ammesso anche dagli antichi rabbini. “Ed io sono polvere e cenere”, i LXX (i Settanta) traducono: “Io mi ritengo polvere e cenere”; il Targum su Giobbe, rinvenuto a Qumran, ha “ed io sono divenuto polvere e cenere”. Si può quindi concludere che questa espressione idiomatica sottolinea la “debolezza umana”.


Conclusioni di Salvoni. Ecco le conclusioni di questo studio: 1) Si vede come talvolta sia difficile tradurre un passo biblico in modo esatto e come spesso la traduzione sia già una interpretazione del passo, che può essere più o meno esatta secondo i casi. 2) La parte in prosa sembra che fu aggiunta più tardi alla parte poetica per diminuirne l’urto con la fede ortodossa, una finale accettabile a tutto il libro (cfr. Geremia 4,19 e Levitico 26,43-44 dove sta in parallelismo con il verbo “aborrire”). In Lamentazioni 3,45 leggiamo: “Ci hai reso spazzatura a rifiuto di fronte ai popoli”. In Giudici 9,38 e Geremia 4,30 la radice del verbo connota l’odio malvagio che spinge ad uccidere. “Ora si ridono di me quei che sono più giovani, i cui padri avrei rifiutato di porre tra i cani del mio gregge” (Giobbe 30,1). 3) Il Giobbe paziente del prologo e dell’epilogo non sembra andare d’accordo con il Giobbe veemente dei dialoghi.  4) I discorsi del Signore anziché risolvere il problema lo rendono ancora più grave. Dio ha grande potere ma non si interessa del giusto sofferente. Come può Giobbe, debole e misero, avere il coraggio di porre delle domande a un Dio onnipotente ma indifferente? 5) Giobbe, con il suo rifiuto di un simile Dio, vuole opporsi alla “teologia del suo tempo” che, per glorificare Dio, lo aveva reso un Dio trascendente, insensibile alle sofferenze umane. Il Dio di Isaia (55,8), che aveva collocato Dio in cielo, allontanandolo dal suo popolo, non poteva soddisfare il sofferente Giobbe. Questo Dio, tanto elevato, che non ha tempo di abbassarsi sull’uomo e di guardare alle sofferenze che colpiscono il giusto innocente non può essere accolto dal sofferente Giobbe. 6) Per lui un tale Dio non ha alcuna risposta da dare. 7) La risposta la dà invece Gesù nel Nuovo Testamento, quando mostra l’amore di Dio che si abbassa verso i sofferenti per dare loro la salvezza totale, di anima e corpo, “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Giovanni 15,13). “Poiché a mala pena uno muore per un giusto; ma forse per un uomo dabbene qualcuno oserebbe anche morire; ma Dio mostra la grandezza del proprio amore per noi, perché, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5,7-8).

Paolo Mirabelli

15 aprile 2021

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Non basta possedere la Bibbia: bisogna leggerla. Non basta leggere la Bibbia: bisogna comprenderla. Non basta comprendere la Bibbia: bisogna viverla.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

Trova il tempo per pensare; trova il tempo per dare; trova il tempo per amare; trova il tempo per essere felice. La vita è troppo breve per essere sprecata. Trova il tempo per credere; trova il tempo per pregare; trova il tempo per leggere la Bibbia. Trova il tempo per Dio; trova il tempo per essere un discepolo di Gesù.