Quando si scrive un articolo, il titolo è una delle cose più difficili, perché in poche parole bisogna sintetizzare il contenuto e dire di cosa si parla. La versione della Nuova Riveduta dà il seguente titolo al capitolo sette del libro di Giobbe: “Sofferenza e ribellione di Giobbe”. Ribellione può sembrare un vocabolo forte, irriverente in bocca a un uomo di fede, ma rende l’idea dello stato d’animo di Giobbe. Altre versioni usano titoli differenti, ma tutte cercano di rendere ragione al testo biblico. Il capitolo sette del libro di Giobbe non è di facile comprensione: non perché sia un testo enigmatico, anche se certe immagini e certe espressioni meritano un approfondimento, piuttosto perché parla di malattia e di dolore, e di fronte alla sofferenza umana mancano sempre le parole, soprattutto quando non si vede nessuna relazione tra la sofferenza e la colpa. Elifaz, uno dei tre amici di Giobbe, domanda: “Ricorda: quale innocente perì mai? Dove furono mai distrutti gli uomini retti?” (4,7). Il suo ragionamento è una accusa indiretta a Giobbe: “Amico mio,, se tu stai soffrendo, è perché paghi per i tuoi peccati commessi di nascosto”. Il suo ragionamento appare lineare, ed è condiviso da molti oggi, eppure non è così, non stanno così le cose: Giobbe è un uomo riconosciuto giusto e integro da Dio stesso. Il motivo della sofferenza di Giobbe è un altro.
Il capitolo sette del libro di Giobbe inizia con una descrizione di chi è destinato a morire perché affetto da una grave malattia dolorosa. Il libro di Giobbe non è di facile lettura, ma non è difficile cogliere che qui Giobbe sta parlando di se stesso, della sua esperienza, di ciò che è accaduto a lui. Giobbe parla della fragilità della vita umana, parla del non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore. Giobbe si ribella di fronte a tanta sofferenza; non vuole più tenere la bocca chiusa. Ha bisogno di parlare, di chiedere, di domandare. Chiunque, anche oggi, di fronte a una malattia dolorosa e prolungata nel tempo, si domanda il perché: perché a me? Poiché Giobbe è un uomo di fede, si rivolge a Dio, che è l’unico interlocutore e il solo e vero responsabile della vita. Per cui la sua domanda non può che essere rivolta a Dio stesso. Giobbe è di fronte a Dio con il suo dolore e i suoi perché. Egli non vuole sapere il perché delle malattie, bensì perché una sofferenza così atroce è toccata a lui, per quale colpa: perché a me? Non è egli forse colui del quale Dio stesso aveva detto che era uomo giusto e integro? E dunque, per quale arcano mistero accade ora tutto questo al “servo di Dio”? Giobbe ha bisogno di gridare il suo dolore e di avere delle risposte convincenti ai suoi perché. Nessuno si rassegna mai di fronte alla sofferenza, nemmeno quando sa che egli stesso è causa dei suoi mali. È un istinto naturale quello di ribellarsi di fronte al dolore.
Giobbe ha bisogno di vedere dietro le quinte per capire chi muove le fila e cosa gli sta succedendo. Egli non conosce certo il prologo del libro, come noi lettori; non sa del tentatore (Satana) e della sua tesi diabolica sostenuta davanti a Dio: “Giobbe ti teme, perché tu gli hai dato tutto, ma che succede se gli porti via tutto, continuerebbe ancora ad avere fede in te e ad essere integro e giusto?” Giobbe chiede udienza a Dio, e Dio gliela concede. È nel “vedere di Dio” che Giobbe finalmente vede. Egli non trova alcuna consolazione in quei discorsi da “cure d’anime stile Elifaz”. Giobbe ha bisogno di una parola di Dio che arrivi in profondità nel suo cuore e risani le ferite che la malattia ha prodotto. Le osservazioni di Giobbe oscillano tra l’universale e il particolare, tra la vita dell’uomo e l’io di Giobbe, tra la sofferenza umana in genere e la sua vicenda personale. È in questo sapiente alternarsi delle parti che Giobbe esprime il suo dramma interiore. Dopo le considerazioni generali, egli passa a parlare in prima persona, applicando a sé le immagini che ha evocato: del soldato, del mercenario, dell’operaio, dello schiavo. E proprio questi paragoni gli permettono di dire come a volte la vita sia dura e dolorosa, senza possibilità di respiro e di momenti di serenità, perché la fatica sfinisce e il momento di riposo è agitato. Le sue sono ormai notti di insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le notti sembrano interminabili e senza speranza. Giobbe desidera ristoro, come lo schiavo anela l’ombra e l’operaio il suo salario. Per chi si affatica, verrà il mattino che attende, ma per chi è malato e soffre come Giobbe, che cosa deve attendere? Deve, nella fede, chiedere di “vedere” e di ascoltare Dio: quel Dio che parla dalla tempesta e che si incontra persino nella più profonda delle sofferenze, quel Dio che ammutolisce chi senza intelligenza offusca il suo disegno, quel Dio che dà, toglie e ridà.