Uno dei salmi più tristi della Bibbia è il Salmo 88. Nel titolo del Salmo (che appartiene al testo originale; non è del traduttore) c’è l’invito a cantarlo “mestamente”. Il Salmo è costituito da un unico e continuo lamento che descrive la situazione di sofferenza per un male oscuro di un uomo vivo ma che si sente già contato tra i morti. Gli antichi scrittori cristiani lo usavano per descrivere l’agonia di Gesù nel Getsemani e sulla croce. Per Eusebio di Cesarea il Salmo 87 prefigura e canta la nascita di Gesù, il Salmo 88 (assieme al Salmo 22) la morte in croce. Tuttavia essi ne davano un senso positivo alla luce della risurrezione del Signore: “Libero tra i morti!” (Agostino). Il salmo sembra difettare del vero motivo del lamento. Certamente a noi lettori rimane ignota la ragione di tanta sofferenza e dolore: ho letto e riletto il Salmo, ma non sono riuscito a trovarla. Non è una malattia che tormenta il salmista, giorno e notte, sin dalla sua giovane età. È un “virus” (così lo colleghiamo al nostro tempo), un male oscuro contro cui combatte. Non sono nemici in battaglia con la spada; è un nemico che non si vede e non si tocca.
Il Salmo è sia un lamento collettivo che individuale. Nel doppio titolo si dice chiaramente che si tratta di un “Salmo dei figli di Core (Kore)”, ma sin dalle prime battute e in tutte le affermazioni di lamento compare il pronome di prima persona “io” e i possessivi. Forse perché nella lamentazione individuale c’è il lamento e il dolore di tutto un popolo, di una comunità, di una nazione, come sta accadendo a noi oggi: ogni morto per il covid-19 (acronimo per il coronavirus) è nostro, è mio, è tuo; ogni persona contagiata dal virus non aumenta solo il numero degli infettati, ma ci riguarda da vicino. Ogni giorno, oltre all’invito a non uscire di casa e a mantenere la distanza tra le persone, ci viene ricordato che il numero dei posti nelle terapie intensive degli ospedali italiani è di circa cinquemila, e ciascuno si domanda: “Mio Dio, sono troppo pochi, e se io dovessi essere il 5001?”.
Il salmista è tormentato e immobilizzato da un male così crudele che lo consuma quotidianamente e lo porta inevitabilmente alla morte, sull’orlo della tomba, tanto che egli si vede già come un morto che bisogna seppellire, come uno già sceso nello sheol (il luogo dove soggiornano i morti). Dopo una vita di sofferenza, di spavento, di angoscia e di terrore, egli vede sopra di sé non il cielo azzurro e soleggiate (come in questi giorni), sereno e stellato, ma la potente mano di Dio contro di lui, che lo perseguita. Il salmista non gode per il fiorire della primavera e il canto degli uccelli, ma, come Giobbe, egli soffre per quello che a lui pare il risultato dello sdegno di Dio. Invece di godere delle relazioni sociali e della simpatia delle persone, è abbandonato da tutti, conoscenti e amici compresi. Si ignora il motivo per cui egli è “imprigionato e non può uscire”. A noi viene detto, giustamente, di “non uscire di casa” perché fuori c’è un nemico invisibile, pronto a ucciderci.
“Perché, Signore, mi nascondi il tuo volto?”, eccoci di fronte al mistero, all’insondabile. Eccoci di fronte a ciò che prova la fede e la fa vacillare. All’interno dei Salmi dei figli di Core (così sono chiamati), cioè i Salmi che vanno dall’84 all’88, il nostro Salmo appare in forma chiastica con l’84. Entrambi si presentano come un tefillah, una preghiera di domanda a Dio, una richiesta di una anima, nefes, che sospira e grida con forza di poter vedere il volto di Dio. Ma mentre nel Salmo 84 l’anima passa di “forza in forza”, nel Salmo 88 l’anima non ha più forza, perché è contata tra quelli che scendono nella tomba. Il salmista si vede disteso fra i morti, messo nella fossa più profonda, in luoghi tenebrosi. Vedere il volto di Dio, sentirne la sua presenza nella vita e nella quotidianità è il desiderio di tutti i grandi uomini di Dio dell’Antico Testamento, da Mosè a Davide (Salmo 27). Nel Salmo 84, vedere il volto di Dio è per i figli di Core come vedere il sole che dirada le tenebre e il buio della notte, per cogliere la bellezza della primavera nei suoi mille colori e profumi. Invece nel Salmo 88 il salmista si interroga sul perché il nascondimento di Dio. Lì c’è luce, qui tenebre. Là c’è vita, qui morte. Un’atmosfera irreale che toglie il respiro e il gusto di vivere. Qui si vive un funerale che sembra non finire, perché le bare nelle chiese aumentano di continuo e non ci sono parenti per piangere i loro morti. Il salmista si domanda se conviene a Dio avere un morto in più che non possa lodarlo. Il suo lamento è grande, ma non disperato, perché egli può invocare Dio.
Finché possiamo pregare Dio, nessun virus può farci disperare. Finché possiamo invocare ancora e sempre “il Signore, Dio della salvezza”, né la morte né lo sheol ci fanno paura, perché sono vinti.