Dopo aver parlato di Samuele, dalla nascita alla vocazione, i capitoli 4-6 spostano l’attenzione sul pericolo dei filistei, i nemici che Davide dovrà combattere. Non si parla di Samuele, ma della fine della casa di Eli e della duplice sconfitta d’Israele. Samuele, colui al quale Dio parla, non c’è in tutto questo. Dio si è allontanato dal suo popolo. Il capitolo 4 si divide in due parti: le due battaglie contro i filistei (4,1-11); la reazione di Eli e quella della nuora alla notizia della sconfitta e dell’arca presa dai filistei (4,12-22). Il racconto termina con un’affermazione, emotiva e teologica, tragica per Israele: la gloria di Dio (kabod) si è allontanata da Israele; l’arca di Dio è presa ed è in mano ai filistei, a degli stranieri incirconcisi (4,22). Come è possibile? Ma il Signore non è il Dio che vince sull’Egitto e sconfigge i popoli cananei? Dio se n’è andato? Il Signore è trascinato in esilio? La sconfitta crea una crisi teologica e mette alla prova la fede. La vera questione teologica in gioco riguarda la “realtà di Dio”. Diversamente dall’’esodo, qui è Israele a essere sconfitto e umiliato; è il Dio d’Israele a essere vinto dagli dèi pagani e la sua arca presa. Come è possibile? Qual è la vera lettura dei fatti? Soltanto alla fine del capitolo, nelle doglie e nel lamento della donna che partorisce un figlio, al quale pone nome Icabod (“niente gloria”), ci viene data la giusta lettura teologica della storia e il perché della sconfitta e dell’arca portata via. Dio è assente: per questo Israele perde. Dio è assente: per questo i filistei vincono. Dio è assente: per questo l’arca è presa. Tuttavia, portare via l’arca non significa certo condurre Dio in esilio.
4,1-11. Il racconto inizia con la battaglia tra Israele e i filistei (Eben-Ezer: prolessi in cui si anticipa il nome dato al luogo in 7,12). Israele prende l’iniziativa di fare la guerra, ma l’esito della vittoria non è scontato, il sostegno di Dio non è garantito. I filistei vincono. Israele perde e lascia sul campo quattro mila uomini morti. Ma anziché riflettere seriamente sui veri motivi della sconfitta, Israele crede di potere usare l’arca di Dio come un talismano o feticcio contro i filistei. Israele perde di nuovo: questa seconda sconfitta adempie le profezie dei capitoli 2 e 3. Dio abbandona il popolo disubbidiente nelle mani dei filistei (come nel libro dei Giudici): è questo fatto che spiega la vera causa della sconfitta. Salta qui ogni automatismo, superstizione e concezione magica. Nessuno può servirsi di Dio per i propri scopi o obbligarlo a essere presente solo perché si fa uso di oggetti e forme da lui stabiliti. È Dio che si serve dei mezzi per salvare, non sono gli oggetti o le parole che obbligano Dio a salvare. La presenza dell’arca nel campo di battaglia non significa necessariamente la presenza di Dio. Israele confida nell’arca, anziché in Dio. Israele spera nell’arca, i filistei invece la temono. Israele fa grida di gioia per l’arrivo dell’arca, i filistei invece prevedono guai. I filistei conoscono la storia dell’esodo e di come Dio opera in favore d’Israele, fanno una analogia con il tempo presente, ma il loro ricordo è in parte confuso e la loro idea di Dio è tipicamente politeistica. I filistei non vogliono diventare schiavi degli ebrei (nome dato a Israele dagli altri), ma mantenere gli ebrei in schiavitù: ed è questo che li muove a combattere contro Israele (il richiamo dell’esodo spinge Raab la meretrice al timore e alla ricerca di Dio, ma non ha lo stesso effetto sui filistei). La presenza dell’arca nella battaglia non fa alcuna differenza. La sconfitta con l’arca è ancora più sconvolgente e disastrosa della sconfitta senza arca: Israele perde trentamila fanti, e i sacerdoti figli di Eli, Ofni e Fineas, muoiono entrambi. Come può un popolo lontano da Dio, che vive nel peccato, con dei sacerdoti scellerati, pensare di avere Dio dalla sua parte quando combatte?
4,12-22. Questi versetti narrano le due reazioni alla notizia della sconfitta d’Israele: quella di Eli e quella della nuora. A recare la notizia è un messaggero, vestito con vesti stracciate e con la testa coperta di polvere, segno di dolore e di lutto. Un grido della città si leva. Eli ode l’urlo e chiede il perché. Egli è in ansia per l’arca di Dio (e per la rovina della sua casa). Il messaggero lo informa di tre cose: della grande tragedia fra il popolo, della morte dei due figli, dell’arca presa. Il Salmo 78 ricorda questi fatti. Eli, quasi cieco, vecchio (novantotto anni) e pesante nei movimenti, cade a terra e muore. La breve nota del versetto 18 (“giudice per quarant’anni”) collega la storia al libro dei Giudici e ai primi re d’Israele. La moglie di Fineas alla notizia dell’arca in esilio, della morte del suocero e del marito, si curva e dà alla luce un figlio, che chiama Ikabod. Prima di morire dice: “La gloria di Dio si è allontanata da Israele, perché l’arca di Dio è stata presa”.