Nelle nostre versioni della Bibbia, Malachia occupa l’ultimo posto tra i profeti e il suo libro chiude il canone dell’Antico Testamento. Nella parte conclusiva del libro si parla della “legge di Mosè” e del “profeta” che Dio manda o invia (4,4-6): questo confermerebbe il rapporto molto stretto che c’è tra la legge e i profeti, con Malachia che chiude la sezione dei profeti. A differenza del canone ebraico che guarda al ritorno degli esuli a Gerusalemme (2 Cronache 36), il nostro canone ha un finale aperto che guarda al “ritorno di Elia” e alla venuta del Signore. Ed è per queste parole, citate nel Nuovo Testamento, che la profezia di Malachia è divenuta celebre tra i cristiani. Il libro ha un forte legame con il Deuteronomio, sia nel linguaggio che nei temi: l’amore di Dio per Israele, il riconoscimento del Signore come unico Dio; Malachia, come Deuteronomio, non fa distinzione tra sacerdoti e leviti, e non risparmia critiche ai sacerdoti. Il suo nome in ebraico significa “messaggero del Signore”. Egli è appunto il profeta che annuncia la venuta del Signore e del suo messaggero che lo precede: dapprima viene l’araldo, poi il Signore stesso. Nel libro si possono individuare una serie di sei dialoghi (alcuni dividono il libro in cinque parti) tra Dio e varie categorie di persone. In questi dialoghi si parla dell’amore di Dio per Giacobbe e i suoi discendenti; si criticano i sacerdoti che trascurano il culto e offrono vittime di poco valore; si censurano i matrimoni misti e i divorzi; si annuncia il giudizio imminente e la venuta del Signore, preceduta da un messaggero; si afferma che i cattivi raccolti e le piaghe subite sono la conseguenza della disubbidienza a Dio per la mancanza delle decime; si smascherano gli arroganti e gli scettici e si afferma che il giudizio di Dio stabilisce la distinzione tra giusti ed empi.
Il nostro versetto è inserito subito dopo una dura requisitoria contro il sacerdozio ebraico (2,1-9). In questi versetti Malachia rivolge un severo monito ai sacerdoti che dimostrano di avere poco a cuore la gloria di Dio. Il problema non è di poco conto, dal momento che la posizione dei sacerdoti quali educatori del popolo risulta fondamentale. Purtroppo, il profeta è costretto a richiamarli alla fedeltà perché sono proprio loro i responsabili dell’allontanamento del popolo dal Signore, come pure della loro stessa rovina. Come può Dio farsi ascoltare dai sacerdoti disobbedienti? La minaccia è seria e concreta: trasformare in maledizione le benedizioni, come afferma il Deuteronomio. Ai sacerdoti vengono portate dal popolo le primizie, in segno di ringraziamento a Dio per i beni della terra, che permettono di vivere e godere del frutto del proprio lavoro. I beni della terra sono benedizione del Signore, ma rischiano di diventare frutti amari e acerbi se non si è in sintonia con Dio. Riconoscere, invece, che tutto proviene da Dio, al quale si dimostra riconoscenza rispettandone i comandamenti, vuol dire prendere a cuore la gloria del Signore.
Il versetto 10 del capitolo 2 è incastonato tra la requisitoria contro i sacerdoti (2,1-9) e la condanna dei matrimoni misti e dei divorzi (2,11-16), di cui ne è parte. L’oracolo differisce dagli altri: non ha un’accusa iniziale seguita da una pretesa di innocenza da parte degli accusati. L’oracolo inizia con tre domande. La prima: non abbiamo tutti uno stesso padre? Alcuni credono che il riferimento sia ad Abramo, come in Isaia 51,2; altri invece pensano che padre si riferisca a Dio stesso, come in Esodo 4,22 e Osea 11,1. La risposta comunque è “sì, tutti abbiamo lo stesso padre”. La seconda: non ci ha creati uno stesso Dio? Ovviamente anche qui la risposta è “sì”. La terza tira le conclusioni delle domande precedenti e mostra l’incoerenza di chi confessa di avere lo stesso padre e lo stesso creatore ma agisce contro il fratello: perché dunque siamo perfidi l’uno verso l’altro e profaniamo il patto dei nostri padri? L’appello di Malachia del versetto 10 si fa davvero struggente per l’intensità e la sincerità: Il profeta invita a guardare alle proprie origini, che si trovano in Dio, sicché colui che compie del male contro il suo prossimo danneggia la sua stessa carne e il suo sangue, oltre che offendere la parola di verità e di comunione che Dio ha donato ai padri. Ai sacerdoti si raccomanda di ricordare e far ricordare tutto questo. Infatti, se agiscono diversamente, compromettono la loro dignità e missione in mezzo alla comunità, costringendo quest’ultima a rivolgersi altrove e a sostituire Dio con qualcos’altro. La fedeltà al Signore non costituisce una trappola, ma un vero cammino di libertà e di fraternità, da cui nasce quella benedizione che il mondo chiede, affinché ognuno possa chiamare Dio “padre” e Gesù “maestro” e sentirsi sazio di pane e verità.