Il nostro brano di soli tre versetti è inserito negli oracoli di restaurazione scritti dal profeta Geremia (30,1-2), profeta di “distruzione”, ma anche di “edificazione” (1,10). L’intero capitolo parla della restaurazione delle “famiglie d’Israele” (31,1): il regno del nord (31,1-22) e il regno del sud (31,23-26) “saranno il mio popolo” (32,1.27-40). Come il Signore ha vegliato sul popolo per “sradicare, demolire, abbattere, distruggere e nuocere, così egli ora veglierà su di loro per costruire e piantare” (31,28). Il popolo disperso tra le nazioni, che vive in esilio, trova ora “grazia nel deserto e riposo, sarà ricostituito e ricostruito, perché amato dal Signore di un amore eterno” (32,2-4). E l’uscita dall’esilio sarà come un nuovo esodo, “in mezzo alle danze di quelli che gioiscono” (32,4). Dopo aver annunziato la rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del “resto” di Giacobbe (30,1-22), nel capitolo 31,1-6 viene espressa la grande gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio di ritorno in patria del popolo, che trova grazia agli occhi del Signore e sperimenta l’amore eterno e la compassione del Dio dei padri. Nel nostro testo c’è la descrizione festosa del rientro in patria, sulle labbra dello stesso Signore. Si ricostituisce il popolo di Dio, di cui fanno parte “il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente”, che il profeta Geremia vede e annuncia perché si possa riconoscere che la salvezza viene dal Signore. Il resto o residuo d’Israele (32,7) che ritorna dall’esilio è una immagine che a prima vista esprime debolezza per la presenza di queste categorie di persone tra le più svantaggiate e disagiate (dal cieco alla donna partoriente), che non potrebbero certo affrontare un viaggio a piedi. Ma proprio la loro presenza mostra e testimonia la potenza di Dio, come in Egitto, e dice che la salvezza non dipende dal vigore delle persone o dalle loro capacità umane, ma da Dio. È con i “deboli” che il Signore costituisce il suo popolo e fa la sua storia. Attraverso la forza profetica della parola di Geremia, Dio ha condannato l’arroganza delle sedicenti guide del popolo, le quali, invece di “pascere il suo gregge”, lo hanno disperso. Ma ora è il Dio vicino e lontano (23,23) che lo raccoglie tra le nazioni e lo fa tornare; quel Signore che agisce come un pastore, raduna il resto delle sue pecore e le fa ritornare ai loro pascoli (23,3). A noi che viviamo dopo la rivelazione del Nuovo Testamento, questa descrizione della cura di Dio verso un popolo dove trova posto il cieco e lo zoppo non parla solo del ritorno in patria d’Israele disperso a seguito dell’esilio, ma rimanda anche ai vangeli e all’opera di Gesù Cristo.
Il versetto 7 è un invito che il Signore fa tramite il profeta a godere per le meraviglie operate da lui stesso nel ricondurre il suo popolo:“Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate”. La salvezza, che è motivo di gioia, è per il “resto” d’Israele: un residuo che comunque è una “gran moltitudine”. Giacobbe è il capo o la prima delle nazioni a causa dell’elezione di Dio, non certo per meriti propri o umani. A chi è rivolto l’invito a esultare, visto che d’Israele si parla in terza persona, alle nazioni o a Giuda? È probabile che sia rivolto a Giuda, come nella parabola del figlio prodigo: il fratello rimasto a casa è invitato a gioire per il ritorno del fratello prodigo. Il Signore riconduce il suo popolo dal settentrione, li raccoglie dalle estremità della terra: la potenza di Dio non conosce limiti di spazio, né difficoltà d’itinerari; egli raggiunge i suoi dovunque si trovino e li guida verso il loro paese, compresi zoppi e ciechi (come in Isaia 35,5), donne incinte e partorienti, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai. Pure nel libro del profeta Isaia troviamo una descrizione della cura che Dio ha nel condurre il suo popolo: “Portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri” (Isaia 40,11). Tre verbi esprimono l’opera di Dio a favore del suo popolo in esilio: raccogliere, ricondurre, far ritornare. Tre tempi ma un’opera unica. Al disagio di ciechi e zoppi si aggiunge la difficoltà delle donne incinte e delle partorienti; un’immagine quest’ultima che esprime nel contempo dolore e gioia: dolore per la gravidanza e il parto, gioia per la nascita del bambino. Dopo il pianto e l’implorazione, li attende ora una grande consolazione; dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella terra dei padri, dove scorre latte e miele e fiumi d’acqua. La motivazione: Dio è un Padre pieno di tenerezza, che non dimentica il suo figlio primogenito, Israele. L’immagine paterna richiama la parentela che lega Dio a Efraim (come in Osea 11,1.8); forse evoca pure la storia di Giacobbe che benedice Efraim al posto di Manasse (Genesi 48,8-20), un modo per dire l’elezione e l’opera gratuita di Dio.