Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

La parabola: Il ricco gaudente e il povero Lazzaro (Luca 16,19-31). Si tratta di una parabola (o di un racconto: né Gesù né Luca usano il vocabolo parabola; inoltre, sarebbe l’unica parabola di Gesù che menziona dei nomi propri di persona e che parla del giudizio e della vita nell’aldilà. Comunque sia, si tratti di una parabola o di un racconto, l’insegnamento non cambia) propria di Luca, che Gesù non ha necessariamente inventato del tutto, poiché narrazioni simili erano già presenti nella letteratura (rabbinica) del tempo (nonostante le somiglianze con i racconti popolari esistenti, la parabola o racconto di Gesù presenta delle notevoli differenze, come ad esempio la finale della parabola, che è ben diversa da quelle a lui contemporanee). Il ricco non ha nome. Il povero invece, per il quale Gesù simpatizza e che ci è più vicino, si chiama Lazzaro, abbreviazione di Eleazar con il senso di “Dio soccorre”. Ma non si tratta di individui: dietro ai due uomini stanno due classi sociali duramente contrapposte dal narratore, il quale simpatizza per quella subalterna dei diseredati, degli emarginati; folle di miserabili, contadini spossessati o immiseriti, pastori derubati dai greggi, schiavi fuggitivi, artigiani privati del lavoro, poveri ammalati incapaci di lavorare. (I due uomini del racconto possono anche rappresentare delle classi sociali contrapposte, vale a dire i ricchi e i poveri, ma non c’è motivo per non ritenere che si tratti di individui. Nel racconto si parla di stili di vita differenti e del conseguente giudizio, e tutto ciò riguarda sempre le persone, non le classi sociali. Negare del tutto che si tratti di individui è una lettura tipica, in voga negli anni in cui Salvoni scrisse gli appunti sulle parabole, di una certa teologia politica della liberazione, che strumentalizzava il Vangelo per parlare contro i ricchi e a favore dei poveri). Il Feuillet (Andrè Feuillet, morto nel 1998, teologo francese, autore di numerosi libri e articoli biblici) vede questa parabola come contrapposto della precedente alla quale si riallaccia per opposizione. Non faccio qui la preistoria della parabola, ma la prendo così come oggi si trova nel vangelo. Tre sono le parti della parabola: situazione terrena dei due uomini(16,19-21); rovesciamento di tale stato nell’oltretomba (16,22-26); dialogo tra il ricco e Abramo (16,27-31).


Vita terrena. La descrizione assai vivace presenta anzitutto il ricco gaudente, rivestito di vesti sfarzose (porpora e bisso), disteso davanti a una mensa sontuosamente imbandita sempre pronta per i suoi banchetti e le feste quotidiane (16,19). Modo efficace per descrivere la vita gaudente del ricco, vissuta secondo i principi di Giasone, giudeo del 2° secolo avanti Cristo, sulla cui tomba sta scritto il detto: “Godete (voi che siete) vivi, bevete e mangiate”. Il ricco gaudente raffigura la classe sociale dei ricchi, dei buontemponi, incurante dei poveri, dei miseri, degli emarginati. Non si cura del povero mendicante che giace alla sua porta, non si rivolge a Lazzaro appartenente a una classe inferiore. Anche oggi in Oriente si formano dei gruppi compatti di famiglie che formano un clan, si aiutano a vicenda e reputano gli altri socialmente inferiori, per cui non si curano affatto della loro condizione, dei loro problemi. Tra loro vige la legge della separazione, del ghetto. Così ad esempio la tribù Taomireh (tribù beduina ta'amireh), alla quale appartenevano i beduini che hanno scoperto i manoscritti di Qumran e che raggruppa circa 700 membri. Tuttavia il giudizio divino è ben diverso dalla valutazione umana: gli uomini reputano importanti le persone ricche, potenti, che vivono nell’abbondanza, ma non è così per Dio. Tant’è vero che il ricco è lasciato senza nome, per cui egli è una nullità per il Signore, secondo il principio biblico che chi non ha un nome è un niente, non ha una personalità propria. Agli occhi di Gesù il ricco è un uomo privo di valore in quanto rifiuta di far partecipare gli altri ai suoi beni, di aiutare i poveri con quel che possiede. Secondo il Buzy (Denis Buzy, morto nel 1965, teologo francese autore di un libro sulle parabole e di numerose opere a carattere biblico-esegetico), il poveretto doveva ben ricevere qualcosa, altrimenti non si sarebbe fermato in quel luogo. Ma Gesù, nella sua parabola che vuole insegnare qualcosa di profondo, non si cura di questo particolare. Egli anzi dice al versetto 21 che Lazzaro “avrebbe bramato soddisfarsi con quel che cadeva dalla mensa del ricco”, il che lascia supporre che non ricevesse nulla. Per cui l’aggiunta della Volgata (o Vulgata, traduzione latina della Bibbia realizzata da Girolamo verso la fine del IV secolo): “e nessuno gliene dava”, pur essendo da eliminare perché ignorata dalla maggioranza dei manoscritti, difatti corrisponde alla realtà, quale la voleva dipingere Gesù. Con lui non vi era alcuna solidarietà da parte del ricco e dei suoi fratelli. Lazzaro invece, raffigura la classe dei poveri, degli emarginati, dei diseredati, i quali soffrono per l’indifferenza dell’altro gruppo sociale. Forse paralizzato si trascinava a stento fino a quel luogo o vi veniva deposto da altre persone, forse come lui. Cliente abituale del luogo, si accontentava di vedere il ricco sperperare le sue ricchezze, bramava di cibarsi dei suoi resti. Come il ricco si accomunava con i suoi pari, così il povero aveva come compagni i cani, che allora erano bestie semiselvagge, continuamente in giro per cercare qualcosa con cui saziarsi. Tali bestie, escluse dalla comunità degli uomini, vivevano fuori dei luoghi abitati, disprezzati e abbandonati da tutti. Si può quindi dire che Lazzaro viveva come questi cani, impuro pure lui (per le sue ferite e il sangue che ne usciva) ed escluso dal consorzio umano. Il pari a uomo trova amicizia con i pari a degli animali che gli leccavano le piaghe. Tuttavia quest’uomo disprezzato possiede un nome che lo identifica, si chiama Lazzaro: vocabolo abbreviato da Eleazaro, con il senso”Dio mi aiuta”. Il suo nome è un simbolo, più che dal ricco egli si attende l’aiuto da Dio, per cui egli s’identifica con i “poveri di Dio” (gli anawim) nel gruppo di giudei fedeli, che poneva tutta la fiducia in Dio, nonostante la discriminazione sociale subita. Di fronte agli uomini Lazzaro è una nullità insignificante, ma di fronte a Dio, per il nome che possiede, assume una personalità di valore.


La scena dell’oltretomba. Ora la situazione è rovesciata completamente: muoiono entrambi, ma il ricco è solo sepolto, mentre Lazzaro “è portato dagli angeli nel seno di Abramo” (16,22). Anzi, in questa situazione di felicità e di benessere, ha un posto di privilegio perché pone il capo nel seno di Abramo, come Giovanni (il vangelo parla del discepolo amato, che con ogni probabilità si riferisce a Giovanni stesso, all’evangelista, ma per la teologia giovannea è importante affermare che è il discepolo amato colui che durante la cena è chinato sul petto di Gesù, poiché egli si trova al centro del kerygma) nel caso di Gesù (Gvovanni13,23), come Gesù sul seno del Padre (Giovanni 1,18). Il ricco invece, giacente nell’Ades, soffre l’arsura della sete, a motivo del fuoco soffocante brama, inutilmente, una goccia d’acqua per rinfrescare un tantino la propria lingua. Ma nessuno gliela dava. Qui si intesse un dialogo. Il ricco non si rivolge a Lazzaro, che non appartiene al suo rango, bensì ad Abramo, perché gli mandi il povero, quasi si trattasse di un semplice servo. Pensava di averne diritto, in quanto era pure lui giudeo e quindi un “figlio di Abramo”. Alcuni rabbini del tempo sostenevano addirittura che un giudeo non sarebbe condannato per sempre al fuoco della geenna e insegnavano che ogni sabato tale fuoco si sarebbe estinto per non tormentare in quel giorno i dannati. Abramo, al contrario, glielo rifiuta, ricordandogli la sua situazione precedente quasi volesse dire: “Hai già goduto prima a sufficienza, per cui ora devi soffrire”. Lui che non aveva avuto il colloquio con il povero durante la vita terrena, non lo può avere nemmeno dopo morti, perché non è possibile passare dal luogo di felicità al luogo di sofferenza.


Richiesta del ricco a favore dei fratelli. Il ricco si ricorda allora del suo gruppo, della sua famiglia, e non vuole che anche i suoi parenti, “fratelli”, finiscano pure loro in quel luogo di dolore. Ma Abramo gli risponde: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino quelli”, per cui esalta l’importanza della Bibbia per la condotta della vita umana. Se non si ascolta la Bibbia, non si può che finire male. Da questa frase appare che il ricco non aveva dato ascolto “a Mosè e ai profeti”. Questa terza parte intende rispondere a una difficoltà. Le esigenze di ripartire le ricchezze sono così elevate da apparire una novità prima nascosta, come può il ricco essere punito per una realtà che lui ignorava? La risposta dice che in fondo tale insegnamento profondo si ritrova già nell’Antico Testamento, a ben intenderlo. Molti suoi testi raccomandano l’aiuto da dare ai poveri, almeno all’interno del popolo eletto (cfr. Ezechiele 22,24; Deuteronomio 24,6.10-13; Isaia 58,7 e altri). Nei salmi si legge spesso che i poveri sono gli amici privilegiati di Dio. È ciò che nella nuova era cristiana (16,16) doveva sentirsi ancor più, come ci testimonia il comportamento dei cristiani di Gerusalemme (Atti 2,42-44; 4,32. 34-35).


Insegnamenti della parabola. Eccone alcuni tra i più importanti (li abbiamo suddivisi in cinque punti per facilitare la lettura e la comprensione).


Primo: il valore delle ricchezze. Già nella sua introduzione si dice che Gesù pronunciò tale parabola contro i farisei, i quali, attaccati com’erano al denaro, si facevano beffe di lui all’udire i suoi insegnamenti (16,14) riguardanti l’amministratore infedele e l’impossibilità di servire a due padroni: Dio e il denaro. Molti farisei identificavano la benedizione di Dio con la ricchezza e il castigo divino con la povertà; per cui, nella loro condizione economica priva di problemi si ritenevano giusti e al contrario giudicavano i poveri come peccatori. Gesù afferma al contrario che il giudizio divino è ben diverso da quello umano, perché Dio scruta i cuori e non solo l’esterno, per cui ciò che è stimato davanti agli uomini è abominevole agli occhi del Signore (16,15). Non è la ricchezza quel che più conta, ma l’unione, l’amore verso Dio e verso il prossimo, sono anzi “beati i poveri”. Il povero non è premiato perché povero, ma perché nonostante la sua miseria non perde la sua fiducia in Dio. Il ricco non è punito perché ricco, ma perché, chiuso nel suo guscio, non si interessa della sofferenza altrui. Di qui l’invettiva di Gesù: “Guai a voi ricchi” (Luca 6,24); alla quale fa eco la lettera di Giacomo: “Guai a voi ricchi” (5,1-6). Per questo può affermare che il vangelo è annunziato ai poveri (Luca 4,18). Luca, che ama presentare i pericoli delle ricchezze, ritiene il detto di Gesù: “È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che a un ricco entrare nel regno di Dio” (Luca18,1-20). Egli riferisce pure il durissimo episodio di Anania e Saffira, puniti di morte, per avere finto una distribuzione dei loro beni con i fratelli, mentre in realtà se ne erano riservata una parte (Atti 5,1-11). Non si deve però concludere che i ricchi siano esclusi dal regno di Dio, perché Gesù promette la salvezza anche a Zaccheo, che era ricco (Luca 19,1-10). Può sembrare illusoria a molti il fatto che Gesù si accontenti di promettere la felicità futura a Lazzaro, senza dire nulla sul cambiamento necessario della società o delle strutture terrene. Spesso la chiesa ha consolato i poveri dicendo: “Soffri pure con serenità, perché godrai poi nell’altra vita”. Ma non sempre ha detto al ricco: “Godi pure ora, che soffrirai nell’altra vita”. Occorre, dicono i sociologi, cambiare la società ora, per cui spesso il cristianesimo è trasformato in un mutamento sociale. Ma è una falsa interpretazione della parabola evangelica. Il cambiamento della situazione nell’oltretomba è presentato solo per sostenere un mutamento, una conversione di vita nell’esistenza presente. Di fronte a persone che si godevano tranquillamente la vita senza curarsi degli altri, che egoisticamente si chiudono a ogni senso di misericordia e di umanità, che non si curano del futuro e pensano che con la morte tutto finisca. Gesù dipinge la vita ultraterrena per aprire loro gli occhi e perché meritano sul serio la minaccia di quel che li attende. La situazione ultraterrena è presentata perché i ricchi si trasformino nella mano tesa di Dio a favore dei poveri, dei diseredati, degli emarginati. È ciò che ricordava anche Giacomo quando scriveva: “Il fratello di umile condizione gioisca pure della sua esaltazione e il ricco della sua umiliazione perché passerà come il fiore dell’erba” (Giacomo1,9). L’aveva ben capito Zaccheo, toccato dall’insegnamento di Gesù, ruppe con la vita precedente e si mise a solidarizzare con i poveri. Infatti egli distribuì la metà delle sue sostanze ai poveri e restituì quattro volte tanto quello che egli prima aveva frodato (Luca 19,1-10). Il cristiano, che ha capito Gesù e il suo messaggio, supera la divisione tra i due blocchi, ricchi e poveri, in un dialogo costruttivo e aperto, che diminuisce, se non potrà togliere del tutto, il divario esistente tra i due. Base del dialogo deve essere la persona di Cristo, che parifica i due gruppi di fronte a Dio, che anzi vede la ricchezza non come una benedizione divina, ma piuttosto come un ostacolo al proprio perfezionamento, se non è usata in senso comunitario. La felicità si può trovare solo nella comunione interpersonale. Per essere autentica essa deve realizzarsi in un incontro tra persone uguali, che abbia come base la persona di Gesù e la sua dottrina dell’amore. Si rivolge ai ricchi perché usino i loro beni non per farne strumento di potere, ma un mezzo per elevare gli altri, che vivono in povertà. La parabola tuttavia è diretta particolarmente ai poveri e agli emarginati per dire che una persona, il Cristo, s’interessa di loro e vive in comunione con loro. Tale convinzione vuole la gioia e la felicità dell’uomo. Ma si rivolge pure ai cristiani perché anche loro s’interessino di questi poveri ed entrino in comunione con loro, sforzandosi di eliminare le loro difficoltà.


Secondo: l’abisso. “L’abisso”, che non si può varcare nell’aldilà, non è altro che la continuazione di quella separazione già esistente tra poveri e ricchi. Il castigo di Dio non è qualcosa di esterno che si aggiunge agli atti malvagi: sono questi stessi atti che portano i loro amari frutti di separazione tra Dio e gli uomini. Così va inteso l’inizio del versetto 26, che esprime come la situazione escatologica, con la separazione radicale tra il ricco e Lazzaro, sia solo il corrispondente dell’abisso che separa il ricco dal povero per la sua brama di godimento.


Terzo: l’oltretomba. “L’oltretomba” è descritto in modo popolare (comprensibile) e con espressioni metaforiche (seno di Abramo, fuoco). Anzitutto la parabola difende l’esistenza dell’oltretomba, dove si avrà la retribuzione di quel che viene compiuto sopra questa terra. Alcuni eliminano questo fatto dicendo che si tratta di una parabola come un puro linguaggio figurato, che non può essere preso alla lettera. È evidente che molte espressioni vanno prese in senso metaforico, come vedremo, ma un conto è dire qualche cosa è figurato e un conto è dire che tutto è simbolico. Gesù vuole mostrare una differenza subito dopo la morte che invece non vi sarebbe, se con la morte tutti finissero nel nulla, in attesa per i buoni di essere “creati di nuovo” (non risuscitati); di fronte al giudaismo che accettava la concezione di una sopravvivenza di qualcosa dopo morte (come ricorda l’episodio citato della fiamma che si estingue di sabato). Tant’è vero che nel Deuteronomio si proibisce di interrogare i morti, ossia le “anime” sopravvissute (Deuteronomio18,11), legge violata da Saul nell’evocare il profeta Samuele (1Smamuele 28,16). I rabbini ammettevano una differenza tra buoni e cattivi, tant’è vero che parlano di fiamme che si estinguono di sabato, nelle quali soffrono i malvagi. Se Gesù non avesse accolto la sopravvivenza del defunto e la diversità di stato tra buoni e cattivi, avrebbe dovuto correggere il loro errore, impostare la parabola in modo diverso, parlando di annientamento dei cattivi e di resurrezione dei buoni, il che invece non viene fatto. Dunque, subito dopo morte, vi è una differenza di sorte tra i buoni e i malvagi, anzi questa diversità è posta per sottolineare la necessità di un cambiamento morale durante questa nostra vita. Ora l’effetto non verrebbe raggiunto, se quanto dice Gesù fosse solo una finzione letteraria.


Quarto: Gesù e l’oltretomba. Gesù accoglie espressioni giudaiche che descrivevano l’oltretomba (She'ol) e le usa come espressioni simboliche di una situazione diversa dei buoni e dei malvagi. I malvagi già nel periodo intermedio anteriore alla resurrezione universale dei morti soffrono nell’Ades (parola greca che traduce la She'ol ebraica) le pene del fuoco in attesa di trasferirsi nel fuoco della Geenna. Naturalmente il fuoco è solo un mezzo espressivo per indicare sofferenza, odio, malvagità che rendono la vita un “inferno”, e per questo che ne usa anche Gesù. Che sia un simbolo (Il linguaggio simbolo, come il linguaggio metaforico, sono in qualche modo in relazione con la realtà descritta. Dire, ad esempio, che Dio è padre significa dire una verità che più si avvicina alla nostra idea di padre). appare anche dal fatto che altrove descrive tale stato con “tenebre e stridore di denti”, che indica la sofferenza dei malvagi (secondo Joakim Jeremias queste espressioni, nel loro contesto, sono il modo per dire la perdita degli ebrei del regno di Dio, oppure il modo per dire il giudizio finale e la definitività della pena). I buoni invece stanno nel seno di Abramo. Altrove si dice nel paradiso, distinto dal cielo posto com’è solo al 3° cielo e non al settimo, che è la dimora di Dio (2 Corinzi 12,1s). Così Gesù dice al ladrone pentito: “Oggi sarai con me in paradiso!” (Luca 23,43), altra espressione metaforica per indicare il luogo dove si trova già sin d’ora il patriarca della fede Abramo. I prediletti, come il povero Lazzaro, pongono addirittura il proprio capo sul seno di Abramo. Si tratta anche qui di espressione simbolica per indicare un luogo di felicità paradisiaca, superiore alla gioia terrena. Con lo sviluppo del pensiero cristiano al posto di Abramo vi è Gesù, per cui Paolo scrive: “Desidero ardentemente abbandonare questo corpo per essere con Cristo”, evidentemente subito dopo morte (Filippesi1,23).


Quinto: importanza della Bibbia. Per una vita onesta e leale, che voglia seguire il volere di Dio, ci basta la Bibbia, che al tempo di Gesù era sostanzialmente costituita dalla legge e i profeti, con l’aggiunta dei libri sapienziali (tra cui i salmi), qui non ricordati, Gesù ricorda solo le prime due parti perché più rilevanti al suo scopo: la legge che è la norma di vita, e i profeti che andarono comunicando la volontà di Dio. Di conseguenza tutte le rivelazioni particolari diventano superflue, siano esse effetto di spiritismo o di altre forze ignote. Ora noi abbiamo non solo la parte preparatoria (Antico Testamento), ma anche la realizzazione ultima delle profezie di Cristo (il Nuovo Testamento), per cui la Bibbia è ora norma completa e definitiva della vita come la intende Dio, il datore ultimo della nostra esistenza.


Nota degli editori. Questa parabola de Il ricco gaudente e il povero Lazzaro (Luca 16,19-31) è tratta dagli appunti scritti a mano di Fausto Salvoni (1907-1982) sulle parabole di Gesù. I vocaboli greci e quelli ebraici, i testi biblici, le note e i commenti riportati in parentesi e alcune piccolissime parti mancanti nel manoscritto sono di Paolo Mirabelli, che ne ha curato la revisione. La trascrizione dei testi è di Cesare Bruno e Roberto Borghini.

Fausto Salvoni

16 maggio 2018

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Non basta possedere la Bibbia: bisogna leggerla. Non basta leggere la Bibbia: bisogna comprenderla. Non basta comprendere la Bibbia: bisogna viverla.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

Trova il tempo per pensare; trova il tempo per dare; trova il tempo per amare; trova il tempo per essere felice. La vita è troppo breve per essere sprecata. Trova il tempo per credere; trova il tempo per pregare; trova il tempo per leggere la Bibbia. Trova il tempo per Dio; trova il tempo per essere un discepolo di Gesù.