Siamo nella parte finale del discorso sulla missione, il più ampio che il Nuovo Testamento riporti. Con questi versetti si conclude il discorso con cui Gesù invia in missione i suoi dodici discepoli, gli stessi che, dopo la risurrezione di lui, per le strade del mondo trasmetteranno con gratuità ciò che loro stessi come dono gratuito hanno ricevuto dal Cristo. Nella missione affidata ai dodici apostoli, di annunciare la buona notizia, guarire i malati, mondare i lebbrosi, risuscitare i morti, liberare gli uomini posseduti da spiriti immondi, la presenza del regno di Dio si fa prossima (vicina) alla gente. Una attività per la vita, che reca vita a tutti coloro che accolgono la parola degli inviati del Signore.
Le parole che concludono questo discorso di Gesù invitano tutti gli ascoltatori a riconoscere nei dodici, i messaggeri del Vangelo, il segno della presenza di Dio nella storia. Per questo accoglierli, riceverli, fare spazio alla loro opera e alla loro parola che annunciano nel nome e per mandato del Signore, significa accogliere Gesù Cristo stesso e il Padre che lo ha mandato. Per questo essi sono detti profeti, giusti e piccoli. Profeti, perché parlano nel nome del Signore. Giusti, perché vivono secondo la giustizia manifesta nel regno di Dio. Piccoli, perché, come discepoli del Maestro, hanno accolto il regno dei cieli con la semplicità dei piccoli.
Prima di concludere, Gesù ricorda ai suoi discepoli di non essere preoccupati per se stessi, perché la loro vita è nelle mani di Dio, e li libera dalla paura (per bene tre volte ripete loro di non temere), la paura di essere odiati, perseguitati e anche uccisi. Prima di concludere, egli ricorda ai suoi dodici inviati che sono chiamati a vivere il segno che rende leggibile la loro appartenenza a Cristo, che se vissuta in maniera radicale, porta con sé una forza che scardina le priorità naturali, famigliari, e le riordina sulla base di un altro primato: Cristo e il suo regno. Nessun legame di sangue e di carne, per quanto potente possa essere, quale lo è ad esempio quello filiale e parentale, può resistere a tale forza. Nessun amore naturale deve avere il primato su Cristo il Signore. Nessun limite o fragilità umana può costituire un ostacolo alla missione degli inviati (un discorso simile Gesù lo fa, in altri contesti, parlando della sequela, della radicalità della sequela). E, ancora più radicalmente, nessuna forma di amore di sé deve costituire un ostacolo per la missione. Ogni pensiero, ogni parola, ogni azione deve riflettere l’appartenenza a Gesù Cristo.
Parlando ai suoi inviati, che devono compiere l’opera evangelizzatrice, Gesù parla anche a coloro ai quali la missione è rivolta: i giudei prima, tutte le genti poi. Amare, perdere, accogliere: con questi tre verbi Gesù svela le intenzioni degli uditori del Vangelo e identifica le dimensioni nelle quali si rivela se essi intendono far regnare il Cristo nella propria vita, oppure no; se sono disposti a ricevere l’accoglienza di un’altra vita, l’accoglienza di colui che è la vita. Chi o che cosa si ama veramente? Che cosa si è disposti a perdere? Chi e come si accoglie l’inviato del Signore? Un discorso così radicale ed esigente lo troviamo pure nel brano riferito alla sequela, riportato in Matteo 8,18-22 e in Luca 9,57-62. Si tratta allora per tutti di mettere verità nella propria vita, di ritornare a chiarire, nel senso letterale di “rendere chiare” (trasparenti) le intenzioni profonde del proprio cuore.
Il discorso sulla missione dei discepoli occupa l’intero capitolo 10 del vangelo di Matteo. I capitoli 11 e 12 descrivono la missione di Gesù: i suoi miracoli, il suo insegnamento, le sue parole. Questi tre capitoli formano una specie di trittico teologico sulla missione. Nei capitoli 11 e 12, che seguono il discorso sulla missione, si parla pure della reazione della gente alla predicazione di Gesù: alcuni credono in lui e aderiscono al Vangelo; altri dubitano; altri ancora lo rifiutano; c’è chi lo accusa di essere un alleato di Satana. Questo modo di descrivere l’azione missionaria di Gesù è funzionale a quella dei discepoli, che ora percorrono la Galilea e la Giudea, ma ben presto dovranno percorrere le vie del mondo. Gli apostoli non devono aspettarsi gli applausi degli uomini perché sono inviati di Cristo: anche loro saranno accolti o rifiutati. Non c’è la ricompensa degli uomini per chi predica. Non c’è per i discepoli un trattamento diverso. Il discepolo non è più del suo maestro. Se hanno chiamato Beelzebul il Cristo, chiameranno indemoniati i suoi inviati. Gli uomini si irrigidiscono nelle loro credenze umane, nelle tradizioni e nei costumi, e non accettano l’invito a cambiare vita che viene dal Vangelo, ma questo non deve fermare l’inviato del Signore, che sa di compiere una missione che reca alle persone vita eterna e salvezza.
Paolo Mirabelli
24 luglio 2024