Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Conosciamo bene questa parabola del vangelo di Luca, forse è una delle più note di tutto il Nuovo Testamento, assieme a quella del pastore che ha cento pecore e una si perde. La parabola ci parla dell’amore di Dio per noi, per ciascuno di noi. La consapevolezza dell’amore di Dio che ci vede da lontano, che ha compassione di noi, che ci attende e ci corre incontro, ci dà la forza per riprendere la strada di casa. La cosa più strana e insolita, più sconvolgente e sorprendente di questa parabola non è tanto la scelta sbagliata del figlio minore e le conseguenze che ne scaturiscono (non è nemmeno il comportamento del figlio maggiore, irritato e geloso, che si rifiuta di entrare in casa e di far festa), ma è l’accoglienza che il padre fa al figlio che torna a casa.


Un padre ha due figli, così inizia la parabola, ed entrambi sono vicini a lui. A un certo momento il figlio più giovane chiede la sua parte di eredità e si mette in viaggio per un paese lontano. Là, il suo modo di vivere dissoluto lo fa restare senza mezzi di sussistenza. A questo si aggiungono anche le avversità della vita e la carestia che lo spingono a rientrare in sé, e quindi a ritornare da suo padre. Certo, inizialmente lo fa perché ha fame, dunque per convenienza, ma in lui c’è anche la coscienza di aver peccato e l’inizio di un ravvedimento. Nelle sue intenzioni c’è questa frase da dire: “Padre, ho peccato contro te e contro il cielo”. Ma quel padre da cui il figlio si è allontanato non è poi così lontano nel suo cuore: l’immagine del padre è sempre rimasta presente in lui. Quando il figlio pensa di dire al padre di essere accolto e trattato come un servo non sta dicendo una cosa buona per sé. La sua richiesta forse risolve il problema della fame, ma non gli restituisce la dignità che ha perso e il bisogno profondo che c’è in lui: quello di essere accolto e tratto come figlio. Il padre rivela la sua vera paternità nell’accogliere incondizionatamente quel figlio che ritorna, e questo supera ogni aspettativa del figlio stesso. Il padre non si è mai allontanato dal figlio, ma lo ha sempre avuto nel cuore: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide e gli corse incontro”. E in questo essere vicini nel cuore che può ricominciare la festa tra il padre e il figlio minore: “Si misero a far festa”.


Oltre al minore, c’è anche il figlio maggiore, che è sempre restato vicino al padre, cosa che il padre stesso gli ricorda: “Tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. Ma questo figlio è davvero vicino al padre? Questo figlio conosce davvero il padre? La sua vicinanza lo porta a sperimentare l’amore del padre? Ecco, siamo rimandati così a riflettere su quello che coltiviamo e custodiamo nel nostro cuore. Siamo vicini o lontani al Signore? Siamo vicini o lontani dai nostri fratelli e sorelle? Il figlio maggiore ha tutto, ma non sa gioirne. Lui non vive una relazione filiale con il padre, non ha una relazione d’amore. Vive come servo: “Da tanti anni ti servo”. La vicenda, il comportamento del figlio maggiore fa nascere in noi delle domande. Che cosa abita nel nostro cuore? L’amore di Dio? Il desiderio di vicinanza a Dio anche quando siamo lontani da lui? Oppure prevale l’interesse per una vita dissoluta, spesa nei piaceri della carne, una vita che spegne ogni relazione, ogni possibilità di comunione e che ci fa restare fuori indignati perché dentro si fa festa per il fratello?


Non c’è poi così tanta differenza tra il figlio minore e il maggiore. Il figlio maggiore ha tutto, ma in realtà non ha nulla, perché non gode di niente. Vive in casa, ma come uno che ne è lontano. Vive con il padre, ma come un servo o un estraneo. Il figlio minore, vivendo lontano dal padre, perde tutto, ma non ha mai dimenticato il padre e quella casa dove si gode di ogni cosa. Anche se lontano, gli resta ancora il ricordo e la nostalgia di suo padre nel suo cuore.


La cosa più insolita e sconvolgente di questa parabola è l’accoglienza che il padre fa al figlio che ritorna, dopo aver sperperato tutti i suoi beni con le meretrici, vivendo dissolutamente. Ma è proprio attraverso il tema dell’accoglienza che la parabola giustifica il comportamento di Gesù nei confronti dei peccatori. È l’accoglienza che egli dà ai peccatori, offrendo loro il perdono e l’amore di Dio, che scandalizza scribi e farisei, e ogni persona che non conosce o non capisce l’amore di Dio. È sapere di essere accolti e perdonati da Dio in Cristo che restituisce all’uomo dignità, libertà e capacità di ritrovarsi con se stesso e con il suo essere persona. È sapere di essere accolto dalla grazia di Dio che spinge il peccatore a cambiare vita, che nel silenzio del suo essere lo porta a decidersi di ritornare a casa. È in questa esperienza dell’essere accolti da Gesù che ciascuno trova la forza di rialzarsi e di mettersi in cammino. È l’accoglienza che rende questa pagina del vangelo buona notizia.

Paolo Mirabelli

04 ottobre 2021

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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