Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

La parabola dei due figli invitati dal padre ad andare a lavorare nella vigna è riportata dal vangelo di Matteo nel contesto dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Non si trova negli altri vangeli. Matteo ha a cuore il rapporto tra Israele e Gesù, la sinagoga e la chiesa. Il significato è evidente. Il lavoro nella vigna è il paragone classico con il quale i profeti dell’Antico Testamento parlano dell’opera di Dio per educare il suo popolo, l’esempio più noto è Isaia 5. In questa parabola Gesù pone i casi di un consenso a parole e rifiuto nei fatti e di un rifiuto a parole e consenso nei fatti. Con una domanda all’inizio e una alla fine, egli chiede ai suoi avversari la valutazione dei due comportamenti. Essi danno quella più ovvia e, lontani dall’immaginare le intenzioni del loro interlocutore, pronunciano così la propria condanna. La parabola vuole mostrare il pentimento di coloro che accolgono l’invito del Vangelo: alcuni che inizialmente dicono “no”, poi però, quando ascoltano l’annuncio e la predicazione del Vangelo, si pentono e fanno la volontà di Dio. Il figlio che dice “sì” al padre ma poi non va a lavorare nella vigna rappresenta i capi religiosi del tempo, i quali rifiutano di credere in Gesù come Messia e Figlio di Dio. Fatto questo attestato da tutti i vangeli. Mentre il figlio che dice “no” ma poi si pente rappresenta i pubblicani e le prostitute che accolgono la predicazione del Battista (e quella di Gesù). Entrambi i figli della parabola sono in contraddizione tra il dire e il fare, ma uno solo si pente e poi va a lavorare nella vigna, e fa la volontà del padre. Nell’applicazione della parabola, Gesù non rimane sul generico, ma va al caso specifico e concreto della predicazione del Battista, che indica a tutti la “via della giustizia”. Di fronte ad essa, la reazione dei pubblicani e delle prostitute è un no, invece quella dei membri del Sinedrio è un . Poi però, i primi si pentono, accolgono l’invito del Vangelo, e il loro no diventa un , mentre il iniziale dei capi religiosi diventa un no, un no ostile a Gesù fino a chiedere la crocifissione.


Al tempo in cui Gesù racconta la parabola, un figlio che dice “no” al padre crea una rottura e si espone a un conflitto, con se stesso (interiore) e gli altri, ma poi muta opinione. Mentre uno che dice “sì” e non fa ciò che deve fare, si adagia sul suo convincimento. La parabola ci dice che nessuno è rinchiuso per sempre nella sua rivolta, ma ha la possibilità di riprendere una relazione, un rapporto venuto meno. Mentre il ragazzo che dice “sì”, che appare pronto e obbediente al padre, ma poi non fa la sua volontà, è soltanto uno che dice e non fa, proprio come i farisei che Gesù censura (23,3). Una vita solo di belle parole, di tanti buoni propositi, di molti “sì” di circostanza, ripetuti di continuo, non serve a nulla se non è seguita dai fatti.


L’espressione greca “proagousin umas” (21,31) viene  tradotta da molti: “Vi precedono”, oppure: “Entrano prima di voi”. Altri invece traducono: “Vanno al posto vostro”. Nel primo caso, il senso è che pubblicani e meretrici entrano per primi nel regno dei cieli, lasciando intendere che dopo di loro vi entrino pure i capi religiosi ai quali Gesù rivolge la parabola. Se si segue invece la seconda traduzione, il senso è che pubblicani e meretrici entrano nel regno dei cieli al posto loro, perché poi credono, mentre i capi sacerdoti e gli anziani del popolo (21,23), ovvero i giudei ostili a Gesù, non credono né a Giovanni né a Gesù.


La parabola non può essere usata per dire che “le parole non contano nulla nella vita”. Forse è così nella nostra società del fare, dove le parole sono diventate vuote. Ma non è questo il tema. E allora usare questa parabola per relativizzare il valore delle parole significa immettere nel testo un senso e uno scopo estranei; significa fare eisegesi (mettere dentro) e non esegesi (tirare fuori dal testo il significato). Tutti noi abbiamo esperienza di come le parole feriscono, di come fanno male, oppure di come possono incoraggiare e aiutare qualcuno. Secondo Gesù, le parole sono l’espressione di ciò che uno ha nel cuore (12,33-37), per cui diventano motivo di giudizio. Il cristiano deve dire ciò che fa e fare ciò che dice, e onorare il detto evangelico: “Sia il vostro parlare: Sì, sì; no, no” (5,37). Il tema della parabola non è nemmeno la difficile relazione tra genitori-figli, anche se essa in qualche modo lo tratta, per questo può aiutare a comprendere tale rapporto. A nessuno piace avere un figlio che dice “no” al padre o alla madre, ma nemmeno un figlio che dice “sì” e poi non fa ciò che i genitori gli chiedono. La parabola, infine, ci fa ben sperare che i tanti “no” che riscontriamo oggi nelle persone alle quali annunciamo il Vangelo siano solo per un tempo.

Paolo Mirabelli

13 luglio 2020

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Non basta possedere la Bibbia: bisogna leggerla. Non basta leggere la Bibbia: bisogna comprenderla. Non basta comprendere la Bibbia: bisogna viverla.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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