Se dovessimo dare noi un titolo a questo Salmo, senza dubbio lo intitoleremmo con le parole del versetto 2: “L’anima mia è assetata del Dio vivente”. Vivere senza Dio è come vivere in una terra arida, che langue, senz’acqua (Salmo 63,3). L’anima dell’uomo è assetata di Dio, perché l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Come la fame si sazia con il pane e la sete si disseta con l’acqua, così la vita dell’uomo trova senso soltanto in Dio, che è “la fonte della vita” (Salmo 36,9), “la fonte dell’acqua viva” (Geremia 2,13). Molti oggi negano questo bisogno di Dio e cercano di dissetarsi da altre fontane o in pozzi scavati dagli uomini e cisterne costruite dalla mano dell’uomo, che il tempo rivela essere “cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (Geremia 2,13). L’anima dell’uomo si disseta soltanto nella comunione con Dio. La vita dell’uomo è fatta per corrispondere a Dio: non a caso Gesù nei vangeli dice di essere la vita (il pane della vita e l’acqua viva).
I Salmi 42 e 43 sono in realtà un unico Salmo (o componimento poetico) suddiviso in due parti, per motivi a noi ignote. A favore dell’unità ci sono le seguenti ragioni: in alcuni manoscritti ebraici essi sono uniti insieme; il Salmo 43 è l’unico che nel secondo libro del Salterio non ha titolo; il tema è lo stesso in entrambi (il dolore per la lontananza dal tempio del Signore); il ritornello di 43,5 è identico a quello di 42,5 e 11. Forse il Salmo 42-43 è stato diviso in due per imitare l’accostamento con i Salmi 1 e 2: i Salmi 42-43 potrebbero segnalare che qui (all’inizio del secondo libro) c’è una ripresa, un nuovo inizio, ma a un altro livello. I Salmi 42-43 (e i Salmi 44-49, 84-85, 87-88) sono attribuiti ai figli di Core: leviti che nel tempio di Gerusalemme erano cantori (1 Cronache 9,19; 26,1-19). Noi manterremo questa divisione in due Salmi e faremo un breve commento soltanto al Salmo 42, che abbiamo diviso in due parti: sete di Dio (42,1-5); abbattimento e speranza (42,6-11). Le parole di questo Salmo evocano le preghiere di Gesù nel Getsemani e sulla croce; risuonano pure nelle nostre preghiere tutte le volte che ci troviamo in situazioni simili a quelle del salmista: lontani da Dio e scherniti per la nostra fede nel Dio vivente.
Sete di Dio (42,1-5). Questo è l’unico Salmo del Salterio che inizia con una similitudine. Come la cerva anela i rivi d’acqua, così l’anima del salmista desidera la comunione con Dio, è assetata del Dio vivente (in contrapposizione agli dèi vani). Il desiderio di Dio del salmista è come la sete (tema che troviamo anche in altri Salmi: 63,2; 84,3). In questo Salmo c’è una abbondanza di immagini: la sete; la visione del volto (in ebraico panim) di Dio; il pane delle lacrime; la folla in pellegrinaggio, che fa festa; l’abisso delle cascate; le onde travolgenti; il giorno e la notte. Un levita, lontano dal tempio, sospira ardentemente di ritornarvi per dissetare lo spirito nel culto. Comparire alla presenza di Dio voleva dire entrare nel tempio di Gerusalemme. L’espressione originale è: “vedere la faccia del Signore”. L’amore per Dio è dimostrato dalle continue lacrime del salmista versate a causa dello scetticismo dei suoi nemici. Questa atmosfera suscita nel salmista il ricordo di quando guidava la folla dei pellegrini alla casa di Dio. Il secondo libro dei Salmi si apre così con il dramma dell’uomo che è lontano da Dio, che si sente dimenticato e abbandonato dal Signore.
Abbattimento e speranza (42,6-11). Soltanto adesso, nella seconda strofa, il salmista ci dice che egli vive nell’estremo nord (Mitsar), dove l’Hermon guarda le sorgenti del Giordano. Egli si sente come sbattuto dalla tempesta, ma nel contempo protetto da Dio. È come se le onde della tempesta fossero le onde di Dio. I nemici lo deridono del continuo: “Dov’è il tuo Dio?”. Infieriscono contro di lui, ma egli esprime la speranza di tornare a celebrare il Signore. Si sente dimenticato da Dio. La sua anima è abbattuta, ma egli si rivolge a Dio in preghiera. La sua sofferenza è descritta come delle onde e dei flutti, tanto da sembrare cascate. Si rivolge con fede a Dio perché lo salvi. Gli domanda perché deve continuare a soffrire. Spera che Dio gli risponda. “Un abisso chiama un altro abisso”: questa metafora è stata usata dai primi scrittori cristiani in chiave allegorica: è l’abisso della miseria dell’uomo che grida all’abisso della misericordia di Dio. Il salmista riconosce che Dio è la sua rocca e sente nascere in lui la speranza: egli spera in Dio e sente che lo loderà ancora. L’ultima frase del Salmo parla della salvezza che Dio opererà a suo favore (“salvezza del mio volto”). L’ultima parola del Salmo è “mio Dio”. La salvezza non possiamo darcela da soli. La salvezza ci viene da un Altro, ci viene da colui che possiamo invocare con fiducia: “Dio mio!”.