Diversamente da tutti gli altri, il Salmo 137 riferisce il luogo (Babilonia), il tempo (durante l’esilio) e gli avvenimenti (le riunioni lungo i fiumi). L’uso dei verbi al passato fa pensare che questo Salmo sia stato scritto dopo la cattività babilonese. Il salmista pensa a quando era prigioniero in Babilonia, a quando viveva da deportato in una terra straniera. Pensa alla sua patria lontana e perduta, alla città di Gerusalemme spianata, al tempio di Dio incendiato. Pensa ai momenti trascorsi assieme lungo i rivi d’acqua di Babilonia (la Mesopotamia era ricca di ruscelli e l’Eufrate era alimentato da diversi corsi d’acqua). Pensa a quando si riunivano sulle sponde dei canali (o erano costretti a fare i lavori forzati nell’irrigazione dei campi). Pensa a quello che ha perso e a quello che ha ora in cattività: vive da prigioniero, come uno schiavo, in un paese straniero e lontano dalla sua patria. Il suo è un ricordo triste e malinconico. È il ricordo dell’esilio. È la voce di uno che parla, che racconta la sua triste e dolorosa esperienza, ma è anche la voce di molti, di un intero popolo. Seduto presso i fiumi di Babilonia, guardando ad oriente, nella direzione di Gerusalemme, il salmista (e gli altri leviti ed ebrei con lui) ricorda e piange, piange e ricorda. Ricorda come era la sua patria e com’è ora. C’era chi, forse qualche ufficiale, gli chiedeva di cantare i canti di Sion, tutti canti che esprimono la gioia di trovarsi a Gerusalemme, mentre ora sono in esilio. Come si può elevare la voce e far risuonare gli strumenti musicali, come si può cantare inni di gioia, quando il cuore è pieno di tristezza? L’esilio è il tempo del pianto, non del canto; del dolore, non della gioia; l’esilio è il tempo in cui le cetre sono appese ai salici piangenti e lo spirito è abbattuto.
“Lungo i fiumi di Babilonia” sono le parole con le quali inizia il Salmo 137; sono parole usate per descrivere l’esperienza dolorosa dell’esilio. Con la deportazione degli ebrei in Babilonia ha inizio l’esilio, il periodo più tenebroso che il popolo ebraico avesse mai vissuto, dopo la conquista della terra promessa, il regno di Davide e lo splendore di Salomone. Lungo i fiumi di Babilonia gli ebrei siedono e piangono ricordandosi di Gerusalemme. Il tempio, luogo della presenza di Dio in mezzo al popolo, è distrutto, non c’è più. Il popolo è nell’impossibilità di offrire quei sacrifici per i peccati che lo santificano e continuano a perpetuare l’alleanza. Gerusalemme, la città di Dio, la città nella quale il Signore ha posto il suo nome, è distrutta e gli abitanti deportati. Lungo i fiumi di Babilonia gli ebrei siedono e piangono, ricordandosi di Gerusalemme; appendono le loro cetre ai salici, lungo i fiumi: come potrebbero cantare le lodi di gioia del Signore in una terra straniera? Sono i loro stessi dominatori (“quelli che ci predavano”) che gli chiedono di cantare “le canzoni di Sion”. Lungo i fiumi di Babilonia i loro pensieri sono continuamente rivolti alla città di Davide, Gerusalemme: “Se io ti dimentico, dimentichi la mia destra le sue funzioni, resti la mia lingua attaccata al palato”, dice il salmista. Piuttosto la paralisi della mano o della lingua che profanare i canti del Signore.
Lungo i fiumi di Babilonia sono molti gli interrogativi che Israele si pone. Nelle religioni antiche, ogni regione aveva i propri dèi: quando un popolo conquistava un altro popolo, ciò significava che la divinità dei vincitori era più potente e che la vittoria era anche sugli dèi dei popoli vinti (deportati anche loro). Con la deportazione e l’esilio di Israele, il Signore stesso è forse andato in esilio anche lui? La sua presenza si è allontanata dalla terra promessa per sempre? Dio ha rigettato il suo popolo (il popolo dell’alleanza) per sempre? Non c’è più alcuna speranza per i figli di Abramo e Giacobbe? Il Signore sarà adirato per sempre contro gli ebrei? Vorrà egli distruggere quanto resta di Israele? Sono tutti interrogativi che sorgono nella mente dei deportati. Lungo i fiumi di Babilonia Israele trova risposta al vero motivo dell’esilio: il peccato. “I nostri padri e noi abbiamo peccato; abbiamo commesso iniquità; abbiamo fatto il male. La ragione della nostra sofferenza e dell’esilio non sta in un cambiamento di Dio, ma in noi, nel nostro peccato”.
Il Signore stesso risponde a queste domande per mezzo dei suoi servi, i profeti. Nemmeno in esilio il Signore fa mancare la sua voce e, con essa, la sua presenza (Dio è sì in Babilonia, ma non come esiliato, bensì come Signore dei re della terra). “Può forse una donna dimenticare il bambino che allatta?”, si chiede Isaia. Anche se questo è possibile, non può accadere però che Dio dimentichi il suo popolo. L’amore di Dio è grande per i suoi, e niente può impedire il suo piano salvifico. Dio farà ritornare Israele dall’esilio, perché, dice Ezechiele, il Signore è un Dio che salva e risuscita.