Il capitolo 14 del primo libro dei Re è così denso di “elementi tragici” da far dire a uno studioso moderno che Sofocle avrebbe potuto scriverci una tragedia. Tra i contenuti che egli elenca c’è: la regina travestita, il vecchio profeta cieco, il principe morente. Sofocle, vissuto nel V secolo avanti Cristo, è stato uno dei grandi tragediografi greci. A differenza di Eschilo, che era religioso, e di Euripide, che era agnostico, Sofocle era ateo; e forse per questo era un autore disperato. Secondo lui, l’uomo vive una colpa non sua (come in Edipo re) e non c’è nessun dio che gli possa venire in aiuto; il destino dell’uomo è l’infelicità e non c’è nessuna via di scampo per lui. Invece il capitolo 14 del primo libro dei Re parla del peccato di idolatria di Geroboamo e di Israele (il regno del nord, ma il regno del sud non è messo bene) come la causa della rovina della nazione e della fine della dinastia dello stesso Geroboamo. Il capitolo 14 del primo libro dei Re parla soprattutto di Dio come il vero protagonista dell’intera vicenda: un Dio che giudica il peccato e ne stabilisce le conseguenze, un Dio misterioso e severo, un Dio che anche quando giudica vuole educare all’ubbidienza alla sua Parola. Senza la presenza di Dio, questo racconto, così complicato, rimarrebbe privo di significato e di razionalità, e nemmeno Sofocle avrebbe potuto scriverci una tragedia.
Il racconto inizia con la malattia del figlio del re Geroboamo, il giovane Abiia. Il padre, ansioso per il figlio, fa travestire la moglie come una qualunque donna del volgo e la manda dal profeta di Dio, Aiia, lo stesso che aveva predetto che Geroboamo sarebbe stato re. Il travestimento della donna doveva servire a ingannare il profeta, a camuffare l’identità del re, a non far riconoscere che lei era la moglie del re. Questa è una costante nella storia: l’uomo, anziché confessare il proprio peccato davanti a Dio, si traveste, si nasconde dietro una foglia di fico, si camuffa; indossa delle maschere come nella tragedia greca. Il vecchio profeta è cieco, ma Dio ci vede. Pure i doni mandati al profeta non sono doni da re, ma fanno parte del travestimento: pochi pani, delle focacce e un vaso di miele. Un re regala ben altro: oro, argento, gioielli preziosi, profumi costosi.
L’inganno viene svelato dalla parola rivelatrice di Dio, come nel caso di En-Dor (1 Samuele 28,8-19). Geroboamo tenta di avere un oracolo a favore del figlio malato, ma il suo tentativo si risolve in un insuccesso. Il Signore rivela al profeta l’identità della donna travestita. Il profeta le annuncia il giudizio di Dio contro Geroboamo e la sua casa. Ancora una volta, una storia serve a evidenziare il peccato di Geroboamo e la sua inevitabile punizione. La fine della sua casa viene annunciata con una serie di immagini, una più terribile dell’altra. L’ira di Dio (che alcuni studiosi moderni cercano di negare) è un concetto biblico di decisa opposizione al peccato. Il peccato e l’apostasia sono temi ricorrenti nel libro dei Re, che hanno come esito il meritato castigo. Geroboamo non ha mai onorato la promessa che Dio gli aveva fatto (11,37-38), anzi aveva disobbedito in ogni modo possibile.
La moglie di Geroboamo spera di udire una parola di salvezza (guarigione) per il figlio e invece le sono dette delle “cose dure” riguardanti il marito e il figlio. Lei va a cercare notizie sulle sorti del bambino malato, ma finisce per essere latrice della notizia della fine della sua casa. La parola di Dio sulla morte del bambino si avverò subito, e questo fu un segno che le altre parole di Dio sul regno di Geroboamo si sarebbero avverate certamente. Il testo biblico non dice che fu Dio a far morire un innocente: il testo dice che il bambino era malato prima ancora di consultare il profeta, ed è normale pensare che morì per la sua malattia. La parola profetica provoca una crisi nel lettore. La notizia del profeta è più grave di quanto il lettore della storia si aspettava. Anche a noi può succedere di essere sorpresi e turbati. Solo se presi per mano da Dio e da lui guidati nel racconto riusciamo a cogliere nella storia una parola di speranza, una parola che ci edifica e ci consola.
Lo scopo del racconto è spiegare i tragici eventi della storia come legittimo giudizio di Dio contro il peccato. La vera ragione dell’esilio è l’apostasia. Anche il regno del sud (Giuda) non è messo bene: Roboamo e il popolo sono colpevoli di apostasia nel culto praticato nei santuari locali, colpevoli di avere assunto simboli pagani all’interno del culto del Signore. L’invasione di Sisach e il saccheggio del tempio sono il giudizio di Dio sul peccato. Il Signore è un Dio che giudica con durezza. Ma nel mettere in evidenza la severità del giudizio di Dio, questa storia cerca di suscitare nel lettore fede nel Dio che fa misericordia e dona la sua grazia in Gesù Cristo.