“In quello stesso tempo vennero alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici”. Con queste parole inizia il nostro brano, che si ricollega all’invio di Gesù sul saper discernere i tempi, per cogliere in essi il kairos di Dio (12,54-57). L’argomento di questo brano è il ravvedimento. Il vangelo di Luca presenta una giustapposizione di idee: alla immagine del giudizio (12,49-59) segue l’esigenza del ravvedimento (13,1-5); al ravvedimento segue il tema della pazienza divina (13,6-9). Incastonato tra il giudizio e la pazienza c’è dunque il tema del ravvedimento: Dio è giudice, Dio invita tutti al ravvedimento, Dio è paziente. Temi e dialettica vanno sempre mantenuti pure nella predicazione. La pericope (13,1-9) non ha paralleli negli altri vangeli. Il nostro brano si colloca nella lunga sezione lucana che riguarda il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-21,27). Fatti e parole, gesti e insegnamenti di Gesù sono così segnati da una tensione verso il compimento della sua missione e dimensione pasquale. Acquistano anche un significato kerigmatico: prima, con l’invito a discernere i segni dei tempi, Gesù parla del giudizio; dopo, con la guarigione della donna curva, Gesù rivela la sua potenza salvifica.
Il nostro brano si compone di due brevi sezioni distinte ma correlate. La prima è un invito alla conversione, prendendo occasione da due tragici avvenimenti (13,1-5). La seconda è una parabola che invita ad approfittare, finché dura, del tempo della grazia. I due episodi di morte violenta (strage ordinata da Pilato e crollo della torre di Siloe: il primo, l’atto sanguinario, riguarda i galilei ed è una azione di malvagità umana; il secondo i gerosolimitani ed è una tragedia naturale) mostrano come non sempre è da ricercare un nesso immediato tra colpa e morte, peccato e sofferenza. Non sempre è facile rispondere al perché le tragedie accadono alle persone. “Pensate voi che”: queste parole di Gesù esprimono una opinione ferma a una convinzione diffusa in quel tempo. Secondo i farisei, non vi è dolore che non sia castigo e nessun castigo è senza colpa. In altre parole, se uno soffre è perché in fondo ha commesso dei peccati, paga per i suoi peccati; questa convinzione emerge anche nelle parole dei discepoli rivolte a Gesù di fronte al cieco nato (Giovanni 9,1-3). Questa interpretazione erronea sottrae gli avvenimenti alla riflessione e dunque al pentimento. Gesù spezza il legame tra peccato e calamità. Persino i tragici eventi dei nostri giorni ci mostra che i bambini che muoiono sotto le bombe non hanno nessuna colpa. I fatti invece devono interpellare il lettore o ascoltatore a non essere impreparato. Gli avvenimenti che accadono invitano tutti noi alla conversione: Dio ama la vita e ci chiama a condividerla con lui. Le parole di Gesù di fronte ai due avvenimenti di cronaca e la breve parabola del fico che non porta frutto richiamano la necessità di saper leggere gli appelli di Dio negli eventi della storia, per entrare e collocarsi in essa in una verità di vita, nella vigilanza e nel discernimento. Si tratta di passare da una vita in superficie a una vita in profondità, convertita alla logica di Dio. Ecco perché di fronte alla crisi e alla negatività della storia il discepolo non può accontentarsi di una semplice cronaca o di un giudizio affrettato, ma è invitato a riflettere sulla precarietà della vita umana e a discernere i tempi per cogliere il kairos di Dio.
Con la parabola del fico (3,6-9) il vangelo ci insegna che se il giudizio di Dio tarda, e i benefici si prolungano nel tempo, questo va letto come segno di un tempo di grazia. Urge però portare frutto prima che sia troppo tardi. Con un tono solenne, proprio a partire dai due eventi drammatici noti a tutti, Gesù pone ciascuno di fronte alla propria responsabilità e alla propria vita. Ogni segno della storia, ricorda Gesù, ha sempre un risvolto personale: è un invito a cogliere l’importanza decisiva del tempo, la necessità di accogliere l’offerta di perdono da parte di Dio, resa attuale nella parola e nella persona di Gesù. Il discernimento a cui invita Gesù apre a una lettura della storia in profondità che vada oltre i luoghi comuni e le convinzioni umane: il tempo che ci è donato è in vista di una salvezza, e accanto agli avvenimenti c’è la parola accorata ed insistente di Dio che ci chiama alla vita. Ogni fatto letto in questa prospettiva può essere un’occasione per mettere in gioco la nostra responsabilità, per cambiare modo di pensare e di vivere e soprattutto il nostro modo di rapportarci a Dio. Il tempo donato all’uomo in vista di una conversione si trasforma nel tempo della pazienza (makrothymia) di Dio.
È importante qui cogliere l’agire dei personaggi della parabola. È normale tagliare un fico, albero da frutto, piantato in una vigna, che dopo alcuni anni non produce il raccolto desiderato: “taglialo, perché sfrutta il terreno”, dice il padrone al contadino. Il contadino risponde: “lascialo ancora quest’anno” (13,8-9). Il contadino ha uno sguardo che va oltre il fallimento. Il contadino offre una possibilità e un tempo ulteriori, con un supplemento di cure. C’è ancora tempo per noi, grazie a Dio. “Taglialo, lascialo”: sono le due battute del dialogo che evidenziano il tema del giudizio e quello della misericordia e della pazienza di Dio. Secondo il testo di Levitico 19,23 i frutti dell’albero potevano essere raccolti soltanto dal quarto anno in poi; se il proprietario dice al vignaiuolo che sono tre anni che va a cercare frutto dal fico, senza trovarne, ciò vuol dire che sono passati almeno sei anni da quando il fico è stato piantato. Taglialo, è una parola di giudizio. Lascialo, è la parola della grazia di Dio in Gesù Cristo.
Fuori metafora, la parabola del fico ci rivela il modo di agire di Dio in Gesù. Egli ha pazienza e il suo sguardo va lontano. La sua pazienza è spazio e tempo donati per la conversione e la salvezza. Per noi che siamo così impazienti, tutto appare incomprensibile. La pazienza di Dio ha pure un volto: Gesù Cristo. Come non riconoscere nel contadino che chiede una possibilità ulteriore lo stile di Gesù che è venuto a chiamare i peccatori alla conversione? Nella parabola Gesù rilegge pure la propria missione: tre anni di annuncio e di attesa per la “restituzione del frutto”. La parabola rimane aperta: non rivela come finisce. Tutto è rimandato alla responsabilità e alla capacità di accogliere questa possibilità e questo tempo che ci sono donati. Lo spazio che ci è concesso non ha altra ragione di essere se non in Dio. E non c’è altra forza che provochi la conversione se non l’amore, la pazienza e la misericordia di Dio. Noi possiamo invertire la rotta di un modo di essere sbagliato solo se impariamo a guardare noi stessi e gli altri con lo sguardo infinito di Gesù. Uno sguardo che va oltre i confini delle nostre possibilità e del nostro giudizio. Il Signore è abituato a vedere le cose in grande. Come un contadino, egli conosce il tempo dell’attesa, non rinuncia a lavorare, vede le potenzialità del terreno, guarda al frutto che può maturare dal fico. Allora la parabola si apre alla speranza, perché ci mostra, ci rivela, che Dio non ha piantato l’albero per essere tagliato, ma per raccoglierne i frutti.