La parabola è comunemente detta: Parabola del padrone generoso, oppure Parabola dei lavoratori delle diverse ore. Essa è incastonata tra la frase “primi/ultimi”, rovesciata alla fine (19,29-20,16). Nella parabola si possono distinguere tre parti (di solito la si divide in due parti: 20,1-7; 20,8-15). Nella prima parte (20, 1-7) si racconta ciò che succede durante il giorno. Al centro della parabola c’è il versetto 8, venuta la sera, che funge da collegamento. Nella terza parte, l’ultima, vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (20,9-10). Il tema della parabola è il regno dei cieli: esso è simile a un padrone di casa, che è pure padrone di una vigna.
Durante il giorno (20,1-7). Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava “dai primi raggi del sole fino a sera” (Salmo 104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comportava una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro parti in cui il padrone di casa esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nelle prime tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario. “Si accordò con loro per un denaro” (la paga giornaliera normale), “vi darò quello che è giusto”, “fece altrettanto”. Nell’ultima si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario. Si crea così un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’è lavoro a sufficienza o sono pigri? Dov’erano, quando il padrone è uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?
Fattosi sera (20,8). Da questo punto in poi la parabola diventa insolita: quando mai si è visto che un padrone di una vigna si sia comportato così? Il versetto 8 crea il collegamento tra la prima parte della parabola e la terza, con il rovesciamento tra gli ultimi e i primi e l’ordine inverso nella paga. Il tutto a opera del “Signore della vigna”, che è pure “Padrone di casa” (20,1.11), chiara metafora del regno dei cieli. La tensione, già creata con il versetto 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata. È ancora più insolito che si inizi da costoro (gli ultimi) il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge di Mosè prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, i quali aspettavano con impazienza la paga, poiché non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: “Gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole” (Deuteronomio 24,15). A questo punto ci aspettiamo che possa accadere qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (20,10).
Gli ultimi diventano primi (209-15). Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi, quelli della undicesima ora, e i primi, quelli della prima ora (20,9-10). Il seguito della parabola riferisce il dialogo tra gli operai della prima ora e il padrone di casa: domanda degli operai (20,11-12); risposta del padrone (20,13-15). Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre di ciò che è suo come meglio crede, come vuole, senza rendere conto a chicchessia. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: pertanto, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali parla la parabola. Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: “quello che è giusto ve lo darò” (20,4); “non sono ingiusto con te” (20,13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: la si perde se l’uomo la reclama a sé come un suo diritto o merito, magari confrontando la sua opera con quella degli altri, e distogliendo così lo sguardo dalla bontà del Signore, davanti alla quale tutto svanisce. La bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non si libera dei suoi concetti umani di merito e giustizia. Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso, da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati ai quali offrire lavoro, si rivela alla fine duro e brusco: “Prendi il tuo e vattene” (20,14). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo “amico”, rivolta perciò al lettore del vangelo (a ciascuno di noi): “O il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?” (20,15). Dio è buono e vuole che tutti siano primi nel regno dei cieli.