Il libro di Giobbe è senz’altro uno dei libri più affascinanti dell’Antico Testamento. Un libro in cui il personaggio principale, Giobbe, è riconosciuto da Dio come un uomo giusto, integro, retto, ma su di lui si abbatte una tempesta di sciagure e di sofferenza tale che lascia il lettore senza fiato, senza parole. Giobbe è chiamato a vivere un profondo dolore e una agonia non paragonabili a nessun altro uomo dell’Antico Testamento. La sua vicenda umana e di fede, con particolare riferimento al tema della sofferenza dell’innocente, è uno dei motivi che rendono il libro di Giobbe molto attuale. Ma il libro rimane complesso, enigmatico, di non facile interpretazione in certe sue espressioni, che sono vera croce degli esegeti, anche a motivo della presenza di numerosi hapax legomena. Girolamo diceva che spiegare Giobbe è come tentare di tenere in mano una anguilla: più forte la si preme, più sfugge di mano. Nella struttura del libro, il nostro brano appartiene ai dialoghi tra Giobbe e i suoi amici: inizialmente gli amici di Giobbe usano un tono da cura d’anime nei suoi confronti, poi però, man mano che i dialoghi continuano, lo accusano di essere in fondo lui la causa dei suoi mali. In questo testo Giobbe risponde a Bildad, e nella risposta esprime la sua fede nel Redentore. Queste parole, destinate ad essere incise sulla roccia, costituiscono uno dei vertici di tutto il libro. In esse Giobbe esprime la speranza che contraddice tutto ciò che egli ha appreso di Dio come suo nemico e accusatore, che appare qui quale speranza contro ogni speranza. Giobbe esprime la convinzione ferma, la fede che l’atto finale della dolorosa vicenda che sta sperimentando sarà l’incontro con Dio che starà dalla sua parte. Il testo appare enigmatico, con uno stile a volte misterioso, caratteristico per certi versi dello stile e del vocabolario profetico. Questo testo è uno dei più difficili dell’Antico Testamento, per la grammatica e l’uso di alcuni vocaboli, ma è pure uno dei più conosciuti, peccato però che quasi sempre viene citato soltanto in occasione di funerali.
Se la vicenda di Giobbe venisse scritta in un libro, incisa su una roccia con uno scalpello di ferro, forse le generazioni future sarebbero più comprensive verso di lui, prima di dare un giudizio duro e affrettato nei suoi confronti, come hanno fatto gli amici. Ma tutto ciò poco giova a Giobbe. Egli anela a ben altro. La sua fede lo fa giubilare per la certezza di sapere che “il mio Redentore vive”. Il termine Redentore, che traduce l’ebraico go’el, richiama una situazione giuridica di Israele che stabiliva che un membro della famiglia era obbligato a rivendicare il diritto di un suo congiunto, pagando una somma per liberare dalla schiavitù, riscattando un terreno in vendita, uccidendo l’omicida del parente. Il go’el era dunque il parente più stretto a cui la legge imponeva di riscattare la proprietà o la persona di un suo congiunto. Un tale obbligo si basava sul legame di solidarietà. Il termine Redentore è spesso applicato anche a Dio nell’Antico Testamento, in quanto vendicatore e difensore del suo popolo, di tutti i suoi membri, specialmente degli oppressi. I profeti parlano di un Redentore che verrà da Sion. Giobbe è convinto che Dio gli restituirà i diritti che egli aveva per la sua vita innocente. Poiché il suo Redentore è vivo, cioè possiede la vita come proprietà essenziale, vive e vivrà anche quando Giobbe sarà morto e avrà l’ultima parola, e chiuderà la discussione su Giobbe. Un giorno il Redentore si ergerà per pronunciare la sentenza come giudice supremo, e allora a Giobbe verrà fatta giustizia. Ma c’è dell’altro. Giobbe crede che anche quando sarà morto (senza la mia carne) vedrà Dio. Queste parole descrivono l’atto decisivo dello sperato esaudimento della preghiera: essa è come un incontro di Giobbe con Dio, cioè una nuova conoscenza di Dio da parte di Giobbe. Egli è convinto che Dio farà giustizia e sarà pienamente riconciliato con lui. Riletto alla luce della rivelazione del Nuovo Testamento questo testo esprime la fede e speranza nella vita nella esistenza risorta. La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte trova eco nella promessa della risurrezione dei morti. “Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura”. La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E tutto ciò produce paura, e la paura rende l’uomo schiavo. E sentendosi città senza mura, l’uomo cerca di costruirsi protezioni e difese che mentre vogliono preservare dalla morte in realtà allontanano dalla vita. Ecco perché tanta parte della vita la passa in questo inganno. Gesù ci invita alla fede, contro gli atteggiamenti difensivi e di paura. La fede in lui è il luogo della resurrezione.