Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

L’episodio del cieco nato è un racconto pieno di implicazioni teologiche. Se da una parte mostra il miracolo dell’uomo nato cieco, dall’altra mette in risalto la crescente cecità dei giudei di fronte a Gesù. Il racconto è legato sia al capitolo precedente, attraverso il tema della luce e del giudizio, sia al capitolo seguente, perché introduce il tema dell’ovile, delle pecore e del buon pastore. Il cieco nato è il sesto miracolo narrato da Giovanni nel suo vangelo e appartiene al cosiddetto “libro dei segni” (capitoli 1-12). Nello stile giovanneo, al segno-miracolo compiuto da Gesù segue un dialogo, una discussione o controversia in forma di processo nei confronti dell’uomo miracolato e di Gesù stesso. La struttura del testo è riconducibile a tre parti: il segno-miracolo (9,1-7); l’interpretazione del segno (9,8-34); la presa di posizione nei confronti di Gesù (9,35-41). Il contesto in cui il miracolo avviene è la festa delle Capanne, in cui venivano richiamati i motivi dell’acqua e della luce. La domanda che il racconto ci pone, nell’ottica della pedagogia della fede, è: chi è Gesù?


L’episodio inizia con Gesù che passando vede un uomo nato cieco: Gesù vede un uomo che non vede. Il verbo blepo, vedere, ricorre 9 volte nel capitolo 9. Segue poi una domanda dei discepoli a Gesù: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Questa domanda fa emergere il tema non facile della relazione tra peccato e malattia. Nella risposta, Gesù smentisce che ci sia una relazione immediata, una consequenzialità tra la sua malattia e il suo peccato. Nella malattia, come poi nella croce di Gesù, si manifesta la gloria di Dio attraverso il miracolo. Gesù e i discepoli incontrano un uomo cieco, ma lo guardano con occhi molto diversi. I discepoli, accecati dal preconcetto che lega in modo automatico la malattia al peccato, vedono in lui un peccatore; mentre Gesù vede nella malattia di quell’uomo l’occasione del manifestarsi dell’agire di Dio. Lo sguardo colpevolizzante dei discepoli si oppone allo sguardo compassionevole di Gesù.


L’evangelista ci ricorda che si trattava di un cieco nato, uno che mai aveva visto la luce, la cui vita era ristretta nel chiedere l’elemosina: dipendeva esclusivamente dalla compassione degli altri. Gesù non gli dà un’elemosina più abbondante del solito, ma gli spalma del fango sugli occhi. Il cieco poi viene invitato a lavarsi nella piscina di Siloe, che significa “mandato”: il cui senso è in rapporto con la missione di Gesù quale inviato del Padre. Il cieco “andò, si lavò, e tornò che ci vedeva”. Per la prima volta nella sua vita egli vede la luce, gli uomini, i colori, gli oggetti, ma vede anche il difficile mondo delle relazioni umane. Il gesto di Gesù che impasta del fango e lo mette sugli occhi del cieco richiama quello della creazione dell’uomo, plasmato dalla polvere della terra (Genesi 2,7). Di fronte al cieco guarito diverse sono le reazioni. Una prima è quella dei conoscenti che pongono domande, interrogano, ma non si interrogano, non pongono mai in questione se stessi, e così restano alla superficie dell’evento (9,8-12). Il dubbio di alcuni sull’identità del cieco riflette la novità prodotta dal miracolo: è lui ma è diverso. Vi è poi l’atteggiamento dei genitori che per paura non vanno oltre una banale e distaccata constatazione del fatto (9,18-23). Il loro comportamento appare reticente. E infine c’è la reazione dei farisei e dei giudei, i quali negano risolutamente il miracolo, perché, facendo del fango in giorno di sabato, Gesù ha violato il riposo divino, e perciò non può essere uno che viene da Dio. Il loro sapere teologico, autosufficiente e impermeabile, diviene ottusità, a tal punto che accusano Gesù (9,13-17) e lo stesso cieco guarito di essere peccatori (9,24-34).


Il racconto si conclude con l’uomo guarito che viene scacciato dalla sinagoga ma  accolto da Gesù nel suo ovile. Il brano si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere chi è veramente Gesù e a confessarlo quale  Figlio dell’uomo, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono al discernimento e restano nella loro cecità spirituale. L’uomo nato cieco ottiene la vista e giunge alla conoscenza della vera identità di Gesù, una conoscenza che è anche, per così dire, una co-nascenza: una nascita a una vita completamente rinnovata da Gesù, espressa dalla confessione di fede: “Io credo, Signore” (9,38).


Il racconto ha due livelli di cecità: quella fisica e quella spirituale. Inizia con la cecità fisica dell’uomo  e si conclude con quella spirituale dei farisei. Chi è cieco e chi vede in questo racconto? È cieco chi non vede e non riconosce Gesù. Vede chi si lascia toccare dal Signore, chi riconosce la propria cecità e confessa che Gesù è la luce del mondo che illumina ogni uomo.

Paolo Mirabelli

20 marzo 2017

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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