Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Il capitolo 5 del libro di Amos annuncia il giudizio di Dio e invita il popolo al pentimento. Un tema questo frequente nella predicazione profetica, che cerca di svegliare le coscienze e richiamare il popolo alla Torah di Mosè. Il paradigma che ricaviamo dalla predicazione profetica è il seguente: il popolo si allontana da Dio, il profeta richiama al ravvedimento, il popolo si pente, Dio perdona il popolo che si è pentito. Nel nostro caso invece il profeta Amos ci sconvolge perché introduce un avverbio che fa saltare il paradigma che ci eravamo costruiti: “peccato-pentimento-perdono”. Si tratta dell’avverbio dubitativo “forse”. Che succede? Perché al possibile pentimento del popolo non corrisponde la certezza del perdono da parte di Dio? Cosa vuole realmente dire Amos? Cerchiamo di capirlo entrando in tema, analizzando in breve il capitolo 5 di Amos, dal versetto 1 al 17. Il testo inizia con dei lamenti (5,1) e si conclude con dei lamenti (5,16-17). Dunque forma una struttura concentrica. La “parola” profetica è rivolta alla “casa d’Israele”, al popolo: “La vergine d’Israele è caduta e non c’è chi la rialzi” (5,2). Il profeta introduce un tema ben noto al popolo di Dio: si esce con mille e si resta con cento; si parte con cento e si ritorna con dieci (5,3). Segue poi l’invito a cercare il Signore e a non andare a cercare salvezza nei vari santuari sparsi nel paese: “Cercatemi e vivrete; cercate il Signore e vivrete” (5,4-6). La salvezza viene da Dio, non dai santuari. In Israele c’erano diversi santuari (il testo non parla di santuari pagani), alcuni risalivano addirittura al tempo di Abramo e dei patriarchi. Il profeta menziona Betel, Ghilgal, Beer-Seba. Non bisogna cercare il santuario, dice Amos, bensì il Signore. L’idea è quella antica della religione, che in tempi moderni viene concepita come una nave che porta a Dio: alcuni si innamorano della nave e dimenticano Dio. Il santuario era visto in Israele come luogo di salvezza, ma anche come luogo dove mettersi a posto con Dio. La visita al santuario era un modo per accontentare Dio per il peccato commesso: come pagare una multa per aver trasgredito la legge. Persino del tempio di Gerusalemme, come denuncia il profeta Geremia (capitolo 7), il popolo aveva una concezione magico-sacramentale. Questi luoghi di salvezza, dice Amos, non vi salveranno. Solo Dio può salvare. I santuari? Betel sarà ridotto al nulla. Ghilgal andrà in esilio. Così Betel, che significa “casa di Dio”, si trasforma in Bet-Aven, che significa “casa di fallimento”; Ghilgal, porta già nella sua fonetica la rovina; di Beer-Seba non si annuncia nessuna condanna. Perciò la salvezza può venire soltanto dal Signore, e non dai santuari che andranno essi stessi in rovina. Dal versetto 7 in poi il nostro testo riporta il motivo dell’accusa rivolto al popolo: avere alterato il diritto in assenzio e gettato a terra la giustizia. La causa di tutto il loro male è l’ingiustizia. Il testo riporta pure un inno a Dio creatore (5,7-8), giudice dei potenti (5,9). Il popolo odia chi li riprende e detesta chi parla con rettitudine (5,10). Un messaggio sempre vero in ogni tempo, anche nel nostro. Il profeta non denuncia soltanto un male sociale, ma il peccato del popolo, e Dio sa quanto sono numerose le trasgressioni del suo popolo e quanto grave è il suo peccato (5,11-13). È lo sguardo di Dio che rende insopportabile il peccato; è la conoscenza che il Signore ha dei peccati del suo popolo che mette a nudo la gravità dei “tempi malvagi” (5,13). Dopo l’invito a cercare Dio c’è l’invito a cercare il bene (5,14-15). Amos invita il popolo al pentimento e a cercare il bene, e lo fa con delle parole molto belle: “Cercate il bene e non il male; odiate il male e amate il bene”. Ed è qui che il profeta Amos, che era un pastore di Tecoa, inserisce l’avverbio “forse”, dicendo: “Forse il Signor avrà pietà del resto di Giuseppe” (5,15). Alla luce di quanto abbiamo fin qui esaminato diventa evidente che Amos intenda far saltare ogni automatismo nei riguardi di Dio. Pensare che Dio debba fare la sua parte, dopo che il popolo si sia pentito, è paganesimo. Pensare che il “mestiere di Dio sia quello di perdonare”, è una deduzione totalmente sbagliata che non coglie la sovranità del Dio della Bibbia, del Signore sempre più grande. Il “Do ut des” non appartiene alla fede biblica e all’insegnamento della Scrittura, ma alle religioni pagane. Ciò che l’uomo fa, anche in termini di giustizia e di pentimento, non dice necessariamente ciò che Dio farà. Comunque, Dio rimane al di fuori degli schemi, paradigmi e automatismi. Il Signore non è tenuto a fare o a dare niente all’uomo. Il perdono rimane comunque un dono, una grazia di Dio. Che Dio sia Dio: ecco cosa il profeta Amos cerca di farci capire introducendo l’avverbio “forse”.

Paolo Mirabelli

17 giugno 2015

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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