Bibbiaoggi
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Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere ancora di più incomprensibili. Il libro di Giobbe è senz'altro uno dei più affascinanti dell'Antico Testamento. Un libro in cui il personaggio principale, Giobbe, è riconosciuto da Dio come un uomo giusto, integro, retto, ma su di lui si abbatte una tempesta di sciagure e di sofferenza tale che lascia il lettore senza fiato, senza parole. Giobbe è chiamato a vivere un profondo dolore e una agonia non paragonabili a nessun altro uomo dell'Antico Testamento. La sua vicenda umana e di fede, con particolare riferimento al tema della sofferenza, è uno dei motivi che rendono il libro di Giobbe molto attuale in questa pandemia che stiamo vivendo ormai da più di un anno. Solo in Italia si contano quasi centomila morti; e a spaventare tanta gente non è soltanto la morte, ma anche le immagini di chi soffre o di chi si ritrova intubato nelle terapie intensive. Il tema della sofferenza e quello della morte trovano in Giobbe un luogo per un approfondimento.


Il capitolo 7 del libro di Giobbe inizia con una rappresentazione plastica di chi sta per morire, di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose. Possiamo ritrovare in questi versetti alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la fragilità e la debolezza della vita umana, il non senso di una vita provata dalla sofferenza e dal dolore, che non contempla un oltre; Dio l'unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a lui; il “vedere” di Giobbe e di Dio.


 Le osservazioni di Giobbe in questo brano oscillano fra l'universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore di chi soffre. “La vita dell'uomo sulla terra è come quella di un soldato; i suoi giorni sono simili ai giorni di un mercenario. Come lo schiavo anela l'ombra, come l'operaio aspetta il suo salario, così a me toccano mesi di sciagura, mi sono assegnate notti di dolore.” (7,1-2). Il paragone della vita è il servizio militare duro, senza possibilità di respiro e di momenti di serenità, perché la fatica sfinisce e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine, Giobbe prende a paragone anche il mercenario e lo schiavo. In questa prospettiva, la felicità è un'illusione e la vita è come l'attesa della mercede per il mercenario o come l’ombra sognata dallo schiavo.


Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti: “Così a me toccano mesi di sciagura, mi sono assegnate notti di dolore. Non appena mi corico, dico: "Quando mi alzerò?" Ma la notte si prolunga, e mi sazio di agitazioni fino all'alba.” (7,3-4). Giobbe insiste sull'insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c'è nemmeno la speranza, l'illusione. “La notte si fa lunga”: la sentinella attende il mattino, quando il suo turno di guardia finisce, ma per chi è malato e l'attesa è la morte non c'è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, “scorrono più veloci d'una spola” (7,6), ma non conducono che a una morte prematura, che cancella ogni speranza. Le parole di Giobbe danno voce al grido di dolore di quanti oggi soffrono, giorno e notte.


Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla morte e alla tomba: “La mia carne è coperta di vermi e di croste polverose, la mia pelle si richiude, poi riprende a suppurare. I miei giorni se ne vanno più veloci della spola, si consumano senza speranza.” (7,5-6). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che egli si ritrova abbandonato e incompreso da tutti, anche dagli amici che vorrebbero consolarlo. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dall'affanno e dal dolore, perché vivere? Giobbe è consapevole di tutto e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: “Ricordati che la mia vita è un soffioLo sguardo di chi ora mi vede non mi potrà più scorgere; gli occhi tuoi mi cercheranno, ma io non sarò più.” (7,7-8). La vita, l'unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine con la morte: “La nuvola svanisce e si dilegua; così chi scende nello sheol non ne risalirà; non tornerà più nella sua casa e il luogo dove stava non lo riconoscerà più.” (7, 9-10). L'immagine del vedere è molto insistente riferita a Giobbe e a Dio. Sarà proprio il vedere Dio, in una esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull'ascolto, che farà ammutolire Giobbe (42,5). 

Paolo Mirabelli

22 febbraio 2021

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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