Siamo nel discorso profetico di Gesù secondo la versione di Luca (21,28); discorso che presenta dei tratti apocalittici. Il vocabolo apocalisse nell’immaginario collettivo comunica soltanto distruzione, catastrofi, guerre, pandemie, ma nel suo significato biblico il discorso apocalittico è un messaggio di speranza che consola i cristiani e li guida nella comprensione e discernimento degli eventi. Quando sembra che la storia, con i suoi tragici eventi, sfugga di mano a Dio, quando non si vede più futuro e si perde ogni speranza, e si pensa che la fine sia ormai imminente, il Signore “toglie il velo” (questo è il significato di “apocalisse”) e mostra il suo disegno di salvezza ai suoi: coloro che si fidano delle parole di Gesù, perché sanno che “cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (21,33). Ciò che leggiamo in questo discorso non ci deve spaventare: le immagini apocalittiche di questo brano che descrivono la “crisi cosmica” devono servire a decifrare gli eventi della storia, a discernere i tempi, per saper cogliere la venuta del Figlio dell’uomo.
Pur rifacendosi al linguaggio apocalittico, la prospettiva di Gesù non è quella di fornire elementi per stabilire date precise sulla fine della storia, quanto offrire criteri di discernimento che permettano di intravedere l’approssimarsi della fine e saper vivere l’attesa in maniera responsabile e vigilante. Ciò che deve stare a cuore al discepolo è il modo con cui è chiamato a vivere la parusia, tenendo sempre lo sguardo volto al compimento. Si può cadere in due trappole: la tentazione d’impazienza (volere anticipare il compimento); la rassegnazione di chi non aspetta più nulla (disimpegno nella storia). Gli imperativi, discernimento e vigilanza orante, sono l’antidoto che permettono di essere radicati e impegnati nella vita, nell’attesa del compimento che è solo nelle mani di Dio.
Servendosi del linguaggio apocalittico e profetico, Gesù parla di disastri e sconvolgimenti cosmici, che si concludono con la manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo (21, 25-27). Segni nel sole, nella luna e nelle stelle. Agli uomini il sole, la luna e le stelle comunicano il tempo che passa e la stabilità e il perdurare delle cose. La mattina nasce il sole e la sera tramonta, la notte appaiono la luna e le stelle: un giorno finisce e un altro inizia, e il tempo passa, inesorabilmente, nei giorni, mesi e anni. Tutto muta e cambia attorno a noi: le città, le strade, i negozi, le case. Gli oggetti e le cose di un tempo non esistono più. Eppure, quando si guarda il cielo sembra che in quest’universo, in cui tutto muta e finisce, ci sia qualcosa di stabile e duraturo, che non viene mai meno: il sole, la luna e le stelle. Non è così, dice il testo biblico lucano. Persino questi fenomeni che l’uomo contempla sono transitori, per niente stabili ed eterni. L’universo è più fragile di quanto pensiamo: ha avuto un inizio e avrà una fine. Le cose che si vedono e si sperimentano ogni giorno non sono realtà ultime e definitive, ma transitorie, penultime. Cielo, terra e mare sono lo spazio e il tempo abitati dall’uomo: tutto subirà una crisi, uno sconvolgimento; tutto cederà il passo a qualcosa di nuovo e di meglio. Di fronte a quest’ultimo spettacolo, che si svolge sul palcoscenico della storia, un dramma cosmico, umano ed esistenziale, gli uomini sono confusi e spaventati. Provano angoscia (synoche), disagio e smarrimento (aporia) per ciò che accade. Sembra di vivere una situazione senza via di scampo. Non è così per i discepoli di Gesù: essi sanno che la fine di tutto è soltanto l’inizio della loro liberazione e l’inizio di qualcosa di nuovo. I cristiani sanno già come finirà la storia, sanno il nome della fine, o meglio di colui che è l’inizio e la fine: Gesù Cristo, il Signore veniente.
Che fare quando tutto questo accade? Che fare durante la distruzione di Gerusalemme per mano dei romani o alla fine del mondo? Che fare quando sembra che sia la fine? Che fare quando ci si trova di fronte a situazioni difficili come questa pandemia, che sembra senza via d’uscita? “Rialzatevi, elevate il capo”, dice Gesù ai suoi. Nessuna sconfitta o smarrimento per i cristiani, nessuna paura. I discepoli di Gesù non devono abbattersi o angosciarsi, piuttosto assumere la postura eretta (rialzarsi) e sollevare la testa. Chi è sconfitto abbassa il capo, così chi non ha più speranza. I cristiani alzano la testa. La posizione eretta è l’immagine della speranza, l’immagine di chi è in cammino, l’immagine di chi sa attendere la venuta del Figlio dell’uomo. La posizione eretta è anche l’immagine di chi veglia e prega. Il cristiano è come la sentinella, sveglia e attenta, pronta a lanciare l’allarme se vede dei nemici o un pericolo che incombe sulla città. Un’immagine delle catacombe è quella dell’orante che prega in piedi, con la testa alzata e le mani tese verso il cielo.