Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Risurrezione nella morte o risurrezione dei morti? Che differenza fa? Fa molta differenza. Ma non è la stessa cosa? No, per nulla. Qui non siamo di fronte a due categorie bibliche per descrivere la stessa realtà, bensì a una scelta: credere nell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla risurrezione dei morti, oppure a una dottrina eterodossa che confonde la verità con l’errore, facendo ricorso a idee filosofiche platoniche miste a credenze reincarnazioniste, estranee alla Bibbia. La riflessione teologica non può congedarsi dal dato biblico, così facendo non è più teologia, e il pluralismo teologico deve stare dentro il paradigma “dire con parole nuove la verità di sempre”.


La risurrezione dei morti è una verità basilare del cristianesimo. È nel cuore del kerygma (1 Corinzi 15). È tra le più citate del Nuovo Testamento. È il tema monografico più frequente negli scritti dei primi secoli, nella letteratura precostantiniana. Senza la risurrezione di Cristo, afferma l’apostolo Paolo, la nostra fede è vana (1Corinzi 15,14). È proprio così: che senso ha la predicazione, che senso ha la nostra fede, che senso hanno le chiese, se i morti non risuscitano, e tutto finisce con la morte? È ancora Paolo che definisce “miserabili” coloro che hanno sperato in Cristo per questa vita soltanto. Se Gesù non è risorto dai morti, meglio vivere secondo il motto degli epicurei: “Mangiamo e beviamo, tanto domani morremo”. Ma ora Cristo è risorto, primizia di quelli che dormono: è questa la nostra speranza e il nostro grido di esultanza.


Gesù Cristo non solo è risorto dai morti, per non morire più, ma egli è anche la risurrezione e la vita: e pertanto colui che risuscita noi dalla morte. Ora quando il Nuovo Testamento parla di risurrezione dei morti intende dire che anche il nostro corpo risusciterà: questo corpo, il mio corpo, il corpo avuto in vita. È questo corpo che verrà risuscitato e trasformato, da debole a potente, da ignobile a glorioso, da mortale a immortale. Noi siamo coloro che aspettano che il Signore trasformi “il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria” (Filippesi 3,21).


I greci e la filosofia platonica consideravano il corpo un carcere dell’anima. Per Socrate la morte era una liberazione dell’anima dal corpo. Per la dottrina della reincarnazione, il peregrinare dell’anima finisce quando giunge ad essere definitivamente libera dal corpo e indipendente dalla materia. Non è così per la risurrezione. Secondo il Nuovo Testamento, i nostri corpi, questi corpi, risusciteranno e saranno trasformati: da corpo naturale (psychikos) a corpo spirituale (pneumatikos).


Quando Paolo parla della risurrezione dei morti stabilisce un “ordine temporale”: prima Cristo, poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta o parusia (1Corinzi 15,23). La medesima connessione si ha in 1 Tessalonicesi 4,13-18 e in altri testi paolini; trova pure conferma negli scritti di Giovanni.  Ora a questa verità si contrappone la cosiddetta “risurrezione nella morte”. I teologi che la indicano affermano che l’esistenza dopo la morte di un’anima separata dal corpo debba essere considerata un residuo del platonismo, che appartiene a quel processo di ellenizzazione subito dal cristianesimo nell’adottare la filosofia greca come “principio ermeneutico”. I teologi della risurrezione nella morte attuano una separazione concettuale nella nozione di corpo, che nel Nuovo Testamento non c’è, e distinguono il corpo dal cadavere. A questo punto giungono alla conclusione che quando si seppellisce un cadavere, il morto è già risorto. Si tratta di vere e proprie forzature esegetiche, di idee del tutto estranee alla Scrittura. Inoltre, spiegano la parusia come avvenimento permanente, il quale non sarebbe nient’altro che l’incontro di ogni singolo individuo, nella propria morte, con il Signore. Invece per il Nuovo Testamento la parusia di Gesù è l’avvenimento conclusivo della storia, la fine della storia. I teologi che insegnano la risurrezione nella morte cercato sostegno alle loro tesi in quello che si chiama atemporalismo. Essi affermano che dopo la morte non può più esistere il tempo in nessun modo; riconoscono che le morti degli uomini sono successive, in quanto considerate da questo mondo, ma ritengono che siano simultanee le loro risurrezioni nella vita dopo la morte, nella quale non ci sarebbe nessun tempo, per cui coinciderebbero le morti individuali successive e la risurrezione collettiva. Ma questa spiegazione dell’atemporalismo fa ricorso a concetti estranei al pensiero biblico. Paolo, apostolo di Cristo, afferma ai corinzi che la risurrezione dei morti avverrà alla parusia di Gesù (15,23) e ai tessalonicesi parla della risurrezione dei morti in Cristo usando il tempo futuro, “risusciteranno” (4,16).

Paolo Mirabelli

31 ottobre 2019

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“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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