Nella Torah ci sono due canti attribuiti a Mosè: il primo in Esodo 15 e il secondo in Deuteronomio 32. Nel primo si canta la liberazione dall’Egitto e la sconfitta degli egiziani, dopo il passaggio del Mar Rosso. Il secondo viene definito “canto di testimonianza” contro l’infedeltà del popolo, scritto da Mosè sul confine della terra promessa, poco prima della sua morte. Come la legge, così questo cantico deve servire a fare una lettura della storia alla luce delle parole di Dio. In quest’articolo mi limito a fare una breve introduzione a questo secondo cantico: Deuteronomio 32.
La morte di Mosè è ormai alle porte: a centoventi anni, egli non è più in grado di “andare e venire”. Giosuè è scelto da Dio come successore. Dunque la storia continua, non si ferma con Mosè. A dire il vero, è la presenza di Dio che dà continuità: “Il Signore, tuo Dio, sarà con te”. Le parole di Dio rivolte a Mosè vengono messe per iscritto: si passa dalla fase orale alla fase scritta. La legge scritta deve essere letta per intero alla fine di ogni settennio, nel luogo scelto da Dio, al tempo della festa delle Capanne. Tutti devono essere presenti, uomini, donne, bambini e lo straniero, e ascoltare “la parola di Dio per oggi”. Il popolo però non tarderà a cadere nel peccato e nell’infedeltà: il vitello d’oro non è il solo momento di apostasia nella storia d’Israele. E l’infedeltà non è un dato marginale o indifferente, ma porta delle conseguenze, come l’esilio. Eppure nonostante le continue infedeltà, Dio rimane fedele e il suo piano di salvezza non viene meno. Le parole pronunciate da Mosè nel cantico sono una testimonianza contro l’infedeltà e l’apostasia, ma nel contempo celebrano la grandezza di Dio, invitano alla lode. Il cantico è tanto un insegnamento quanto una lode. Come il libro del Salterio, che inizia con un insegnamento sulla Torah (Salmo 1) e prosegue poi parlando dell’uomo davanti a Dio, così il cantico parla del popolo con le parole di Dio.
È un cantico giudiziario sull’infedeltà d’Israele, con una struttura semplice: una riflessione storica sull’ingratitudine del popolo e un discorso su Dio che annuncia prima il giudizio e poi la salvezza. Alla fine della Torah, il cantico è la sintesi lirica della teologia del Deuteronomio: fedeltà di Dio nonostante l’infedeltà del popolo. Dopo un’introduzione segue una memoria della guida e della protezione di Dio lungo il cammino nel deserto e nella presa della terra promessa. All’agire di Dio non corrisponde la gratitudine d’Israele, che si dimostrerà ribelle e idolatra: “Iesurun si è fatto grasso e ha ricalcitrato; si è fatto grasso, grosso e pingue; ha abbandonato il Dio che lo ha fatto e ha disprezzato la rocca della sua salvezza” (32,15). Tutta la predicazione profetica conferma la rottura del patto da parte d’Israele e l’orgoglio, soddisfatto di sé, che lo ha fatto cadere. C’è un contrasto stridente tra la fedeltà di Dio e l’infedeltà del popolo. In quanto “roccia” (tema assai caro questo al libro dei Salmi), Dio è assolutamente fedele, affidabile. Israele invece è proprio l’opposto della fedeltà, come dimostrano le parole del cantico sui culti alle divinità nuove e straniere, “conosciute di recente”. Lasciare Dio per delle divinità che non sono niente e che i padri non conoscevano: ecco il peccato. Il peccato e l’infedeltà non sono dati marginali che lasciano Dio indifferente, il giusto giudizio di Dio si fa sentire, che consiste sostanzialmente in due cose: l’ira di Dio (il suo no, la sua santa opposizione al peccato, il suo reclamare con forza la persona che ama) e il nascondimento del suo volto, tanto ricercato dal salmista Davide. Ma alla fine c’è il riscatto. L’ultima parola non è di condanna, per chi si pente, ma il ritorno, la possibilità di inginocchiarsi nuovamente davanti a Dio e dirgli: Tu sei il padre e la madre che mi hanno messo al mondo!
La funzione del cantico, oltre ad essere un deterrente contro il peccato e l’idolatria, è: istruire e accusare, accusare e istruire. Quando le cose descritte nel cantico accadono, chi riflette, chi legge la storia alla luce della Parola di Dio, capisce che ciò che è accaduto non è dovuto al caso: il popolo non è nelle mani di un destino inevitabile. Tutto ciò che accade è sotto il governo di Dio, anche se a volte non viene capito. Il cantico offre una sintesi della storia della salvezza e una teologia della storia. Parla dell’elezione d’Israele: “Quando l’Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d’Israele” (32,8), e del Signore come colui che governa la storia e dà ordine alla geografia umana. Il Signore è il solo vero Dio, colui che fa “morire e vivere” (32,39), come cantano i redenti del libro dell’Apocalisse nel cantico di Mosè e dell’Agnello (15,2-3).