Bibbiaoggi
Gesù Cristo, la Bibbia, i Cristiani, la Chiesa

Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3,16).

Il vangelo di Matteo è particolarmente attento alla presenza di Dio in mezzo agli uomini. All’inizio del vangelo troviamo che il nome Emmanuele dato a Gesù significa “Dio con noi” (1,23). Alla fine c’è la promessa di Gesù: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (28,20). Nel capitolo 18, un capitolo che riguarda la comunità dei discepoli, Gesù promette di essere presente ogni volta che due o tre discepoli si riuniscono nel suo nome (18,20). Da qui il detto: “Ubi Christus, ibi ecclesia” (dove è Cristo, ivi è la chiesa).


“Che ve ne pare?”, così inizia la piccola parabola del pastore e delle cento pecore (18,12-14). Gesù interpella i suoi ascoltatori, li coinvolge: egli parla a ognuno di noi. Il Signore non accetta la perdita di nessuna delle sue pecore. La volontà del Padre, che è nei cieli, è che nessuno perisca (18,14). Una profezia di Geremia (23,3-4) diceva che Dio stesso radunerà le sue pecore, nessuna si perderà, nessuna sarà abbandonata, ognuna sarà ricercata e trovata: non né mancherà neppure una. Ecco qual è lo sguardo e il pensiero di Gesù verso i suoi. Il Signore è quel pastore che ha cento pecore e va alla ricerca della perduta: ogni pecora è per lui come se fosse l’unica, ogni pecora vale come tutto il gregge. Egli si rallegra più per la smarrita ritrovata che per le altre novantanove che non si sono smarrite. L’insegnamento di questa piccola parabola deve essere la base dei rapporti fraterni in una comunità di discepoli. Il nostro sguardo deve assomigliare a quello del pastore Gesù. Nessuno “di questi piccoli” deve essere disprezzato, escluso senza motivo, poiché gli angeli loro vedono del continuo la faccia del Padre che è nei cieli (18,10). Se ci riconosciamo tra le cento pecore di Gesù, non dobbiamo avere la presunzione di credere di essere tra i giusti, di appartenere alle novantanove che sono al sicuro; piuttosto dobbiamo avere un atteggiamento di umiltà che ci porta a credere che “eravamo perduti e siamo stati ritrovati”, che ci spinge a ricercare chi si smarrisce.


In mezzo a un mondo che cerca la grandezza e il dominio, caratterizzato da continui scandali (18,1-5), la comunità dei discepoli può essere quella realtà che fa spazio a Dio, luogo della presenza di Dio nel mondo. Il capitolo 18 inizia con la domanda dei discepoli su chi sia il maggiore nel regno dei cieli. Il bambino, chi è come un bambino: è la risposta di Gesù. Dove ci sono gli scandali, dove si ricerca il potere e la gloria umana, là non c’è Dio, e non c’è la chiesa. Il bambino non cerca il dominio, non provoca scandali. Soltanto chi ha l’atteggiamento e la semplicità del bambino può tentare la correzione fraterna. Solo chi sa farsi piccolo, chi sa corregge se stesso ed è consapevole dell’influenza, benefica o malefica, che esercita sugli altri (18,6-10), può adoperarsi per gli altri. Solo chi dimostra l’amore e la cura che il pastore ha per la pecora smarrita sa come guadagnare il fratello che pecca. Solo chi sa essere premuroso e misericordioso come quel pastore sa come andare alla ricerca del fratello smarrito e osare la correzione fraterna.


Una correzione che è un atto di uscita da sé, dalla propria sofferenza per il torto subito: “Vai” (18,15); il verbo ricorda l’uscita di Abramo da Ur dei Caldei, a seguito della chiamata di Dio. Gesù invita a uscire incontro a chi, nonostante la sua colpa, è tuo fratello (nella lite tra i pastori, Lot vuol far valere i suoi diritti, Abramo la fratellanza). Una correzione che è progressiva: prima “fra te e lui solo”, poi “una o due persone con te”, infine di fronte alla comunità, perché sia reintegrato o allontano dalla comunione (18,15-17). Una correzione che è rispettosa dei tempi di maturazione dell’altro. Una correzione che ha come scopo primario il recupero del fratello che pecca, non la punizione. Una correzione che libera il colpevole dalla colpa e l’offeso dal torto subito. Una correzione che sa legare e sciogliere, perché ha lo sguardo rivolto verso il cielo (18,18).


Gesù chiude il discorso con due affermazioni: l’esaudimento della preghiera e la promessa della sua presenza nella chiesa (18,19-20). In questa situazione di conflitto egli afferma che l’obiettivo da ricercare non è tanto il prevalere delle ragioni di chi ha subito il torto, né tantomeno l’accettazione delle prevaricazioni di chi lo ha procurato il torto, o evitare il confronto diretto, bensì il bene che porta a un comune pensare e sentire sinfonico: “Se due di voi sulla terra si accordano” (symphoneo). La richiesta o preghiera concorde trova esaudimento presso il Padre. Gesù promette la sua presenza nella comunità dei discepoli che nel nome suo si riunisce per accogliere, correggere e recuperare il fratello che pecca; si riunisce per fare la volontà del Padre e glorificare il nome del Signore.

Paolo Mirabelli

23 novembre 2018

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Non basta possedere la Bibbia: bisogna leggerla. Non basta leggere la Bibbia: bisogna comprenderla. Non basta comprendere la Bibbia: bisogna viverla.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.” (2 Timoteo 3,16-17). “Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare.” (Salmo 62,5-6).

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